7 maggio 2016. Ora è pubblico. Parliamo dell’accordo TTIP, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, in via di negoziazione tra Usa ed Europa che è stato “svelato” da un leak diGreenpeace nei giorni scorsi. Un trattato che Dario Tamburrano, Membro del Parlamento Europeo e autore di un wiki approfondito sull’argomento, ha definito come “una riforma istituzionale nascosta, e non un trattato commerciale”. Diciamo subito che, sulla base di quanto emerso, non è un accordo positivo per le economie europee, come del resto non lo sono stati gli ultimi quindici anni di accordi sull’economia mondiale che hanno avuto, come effetto, quello di riportarci a una distribuzione della ricchezza globale, in termini percentuali e per classi sociali, uguale e quella del 1914, come afferma l’economista Piketty nel suo volume “Il capitale del XXI secolo”.
Un contesto che è anche caratterizzato dalla crisi e che, a parole, il TTIP vorrebbe aiutare a superare in nome dell’abbattimento delle barriere tra una nazione e l’altra che però deve essere fatta nel “rispetto” delle varie economie. E ciò già rappresenta un problema per l’Europa, perché il Vecchio Continente vede rappresentate al tavolo delle trattative economie profondamente diverse che sono state unificate, solo sulla carta dall’Euro, che possiedono culture imprenditoriali profondamente diverse e con sistemi fiscali molto difformi. Il tutto mentre dall’altra parte c’è un sistema abituato, per l’appunto a fare sistema, con delle leggi federali chiare e univoche, all’interno del quale le eventuali criticità dell’accordo non sono oggetto di contrattazione.
È il caso, infatti, degli appalti pubblici il cui accesso da parte delle imprese europeo è concesso solo a livello federale, mentre quelle a stelle e strisce potrebbero partecipare a tutte le gare pubbliche della Ue, dai comuni in su. Un dettaglio? Non esattamente. Un’asimmetria di grande vantaggio potremmo dire. Le aziende Usa in Europa potranno partecipare a band pubblici facendo valere la propria dimensione di scala, scalzando quelle locali, mentre quelle europee non potranno agire a livello di stati, ossia locale, mentre su quelli federali si troveranno le più grandi imprese statunitensi. Non ci vuole molto a capire da che parte stia il manico. E non basta. Gli Usa vogliono contare anche nella definizione degli standard tecnici ed elettronici, partita enorme sul quale si gioca il destino di una larga fetta dell’economia mondiale, mentre la Ue non ha fatto la stessa richiesta.
Insomma si potrebbe lasciare agli Stati Uniti la decisione finale in materia di tecnologie, in un momento in cui le tecnologie diventano strategiche. E chi ha in mano questo standard ha in mano il futuro. Pensiamo per esempio all’impatto economico che potranno avere glistandard sull’auto elettrica, su quella che guida da sola, sui prossimi protocolli di trasmissione dei dati. Oppure sugli standard relativi ai consumi energetici. Una partita da miliardi che si gioca all’oscuro dei cittadini europei e persino degli europarlamentari che possono visionare i documenti scritti in inglese tecnico, senza poterli riprodurre, trascriverli e dichiarando di non rivelare alcun dettaglio.
E non c’e scampo se non si dovessero rispettare gli accordi. Se per esempio per sopravvenuti problemi economici o di mercato uno stato volesse legiferare in senso opposto al trattato, allora scatterebbe la mannaia del meccanismo dell’ISDS (Investor State Dispute Settlement), il meccanismo che è inserito in molti accordi commerciali e consente alle aziende di fare causa agli stati per “mutate condizioni di mercato”. E i processi dell’ISDS sono opachi, si tengono a porte chiuse, in tribunali sovranazionali e senza possibilità d’appello con sanzioni che possono arrivare a decine di miliardi, mettendo così in crisi la capacità di governare da parte degli stati.
Certo anche le aziende europee potrebbero fare causa agli Stati Uniti, ma ci sono un poco di problemi. Questi processi, infatti, si svolgono presso le Corti d’Arbitrato Commerciale che sono tribunali internazionali avvolti nelle ombre e sui quali le leggi nazionali non contano nulla, ma gli unici presi in considerazione sono i trattati internazionali. E i giudici, vista l’extra territorialità della politica, sono avvocati privati scelti da una lista ristretta che possono essere anche difensori delle imprese in altro processo. Ossia hanno ruoli intercambiabili, in processi che si svolgono a porte chiuse, senza controllo pubblico e senza possibilità d’appello. E ciliegina sulla torta la valutazione dei “giudici” deve escludere impatti sociali o ambientali dell’investitore. Tradotto: non importa ciò che succede all’esterno, se l’azienda produce e vende sostanze inquinanti ed è stata introdotta una norma che le vieta. Ciò che conta è il “diritto” leso dell’azienda e non cosa succede sul territorio.
Immaginate l’asimmetria. Da una parte una multinazionale Usa di quelle che hanno capitale accumulato per decine di miliardi di dollari, alcune arrivano a 150 pari al Pil della Nuova Zelanda.
E si potrebbe pensare che un sistema del genere porti vantaggi almeno sotto al profilo economico ma non c’è nulla di più sbagliato. Lo studio del CEPR, commissionato dalla Commissione Europea e presente sul suo sito, dà un incremento del Pil dello 0,03% nello scenario della maggiore deregolamentazione delle barriere commerciali del TTIP, al quale bisogna aggiungere una perdita di un milione di posti di lavoro sia in Europa, sia negli Usa. I vantaggi dove sono quindi? Ci sono per le imprese visto che gli scambi commerciali aumenteranno dalla UE verso gli USA del 28,03% mentre quelli degli USA verso l’UE saliranno del 36,57%, il tutto, però a discapito dei mercati interni Ue che diminuiranno, trascinando le economie interne degli stati membri della Ue in una condizione quantomeno di stasi, se non di deflazione.
Ma lo studio del CERP che si basa su una teoria liberista ampiamente criticata il “General Equilibrium Model” che si basa sull’affermazione che la rimozione delle barriere commerciali porta i sistemi economici a un equilibrio “naturale” è contestato dallo studio dell’economista Jeronim Capaldo, del Global Development and Environment Institute dell’Università Tufts di Boston che ha valutato gli effetti del TTIP con il modello GPM (“global policy model) usato dalle Nazioni Unite. Risultato: Pil in aumento per gli Usa del 0,36% e in diminuzione tra lo 0,03% dell’Italia e lo 0,48% della Francia, in Europa. Ma ciò che sconcerta è il reddito. Aumenta dei 699 euro negli Usa e diminuisce tra i 669 euro dell’Italia e i 5.518 della Francia, così come i posti i lavoro che aumentano di 784.000 unità negli Usa e diminuiscono di 583.000 addetti in Europa.
Certo si tratta di uno studio non ufficiale, ma è significativo che subito dopo i leaks di Greenpeace la Francia abbia bloccato i negoziati. «In questa fase dei negoziati la Francia dice no al Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP o Tafta) perché non siamo per il libero commercio senza regole.- ha affermato secco il presidente Francois Hollande – Noi non accetteremo mai la messa in discussione dei principi essenziali per la nostra agricoltura, la nostra cultura, la reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici».
Già perché secondo lo studio di Capaldo la Francia sembra essere la nazione che perde di più e ha, assieme alla Germania, l’opinione pubblica più attenta. Cosa che se in economia sembra non contare più, in politica, per fortuna, si. Mentre anche nello studio più ottimista sul TTIP lo scopo dell’accordo sembra essere quello di aumentare la ridistribuzione della ricchezza in maniera ineguale come negli ultimi quindici anni. «La lotta di classe esiste ancora, solo che è invertita. La fanno i ceti più abbienti nei confronti di quelli più poveri», affermava il sociologo Luciano Gallino in uno dei suoi ultimi libri e il TTIP, sembra essere un altro, grosso, tassello in questa direzione.
Sergio Ferraris