La politica, il referendum, i giovani e la cacciata di Lama nel 1977

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I giovani. Tutte le fasce sotto i 55 anni, con una percentuale “bulgara” dell’81% tra i 18 e i 34 anni hanno votato NO, bocciando senza appello un loro quasi coetaneo di 41 anni: Matteo Renzi. E le teorie sul conflitto generazionale, sulla modernità, sull’innovazione che fine hanno fatto? Semplice. Sono state sostituite dalla banale e vetusta teoria della “lotta di classe”. Si vota in base alla propria condizione economica e solo su questa in un quadro dove mancano, visioni, ideologie (brutta parola eh..) e in ultima analisi speranze.

Ed è stato un voto, specialmente quello dei giovani, in bilico tra le bocciatura di Renzi, che ci ha messo del suo con l’abolizione selettiva dell’art. 18 (che scava un solco profondo tra chi lo ha e non lo ha dividendo i cittadini), l’aumento della precarietà dovuto al Jobs Act e alla non riforma della giustizia civile (grazie alla quale se ti impegni a mettere in piedi una start up innovativa in proprio non sai come e se sarai pagato per un servizio reso) e l’aggrapparsi a un testo, la Costituzione, che può avere dei limiti, ma è chiaro, semplice e per buona parte non concretizzato.

Insomma pare che questa volta anche i giovani, categoria che non mi piace molto usare in quanto al suo interno esistono ricchi, classe media e poveri, istruiti e meno istruiti, e giovani “nati vecchi”, abbiano pensato al futuro e che quello proposto non li abbia convinti.

Ora però abbiamo un problema. Dove trovare chi sostituisca lo sconfitto Matteo Renzi, magari con una persona di pari età? Semplice. Non c’è. Non c’è perché da trenta anni si è bloccato l’avvicendamento politico vero, quello fatto di rotture e innovazioni politiche, di persone che sono cresciute politicamente dalla strada e hanno fatto un percorso capendo le persone e diventando i migliori. E per capire ciò bisogna andare indietro.

Capitolo 1

Avevo 16 anni quando il 17 febbraio del 1977 fui tra coloro che cacciarono Luciano Lama dall’Università occupata di Roma. Era il nostro territorio e Lama era un estraneo anzi percepito come un nemico. A noi che ci affacciavamo al futuro una classe politica considerata fino ad allora amica e vicina (quella del PCI) diceva: sacrifici, governabilità e austerità. Escludendoci.

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Il tutto condito dalla prospettiva di governo con l’odiata Democrazia Cristiana, quella che l’anno prima ci aveva costretto a fare una colletta per una nostra compagna di scuola, rimasta incinta al primo rapporto sessuale, per farla abortire in sicurezza a Londra, quella che era al governo da decenni e aveva tramato con i golpisti, quella il cui ministro degli Interni, Francesco Cossiga fu responsabile, meno di un mese dopo dell’uccisione, il 11 marzo 1977 del compagno Francesco Lorusso.

E rovesciammo il palco. Avevo un’idea confusa del futuro, come la si può avere a 16 anni, ma una certezza: se volevo averlo un futuro dovevo impegnarmi ,in prima persona e come collettività.

Capitolo 2

Nel 1980 eravamo stati sconfitti. Il mio collettivo al liceo era distrutto. L’eroina aveva falcidiato molti compagni e ciò che non aveva fatto la droga l’aveva fatto la legge sui pentiti. Ne bastò uno a scuola e tutta la “meglio gioventù” (oppure la peggio dipende dai punti di vista) finì in galera preventiva con imputazioni da incubo che prevedono l’ergastolo, quali “insurrezione armata contro i poteri dello stato” per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata o lanciato una molotov.

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In due su oltre 40 non fummo colpiti dall’una o dall’altra cosa. E quando passi gli anni tra i 19 e i 25 in carcere per aver fatto politica, dalla politica ti autoescludi per sempre. La politica a sinistra era sempre più respingente nei nostri confronti. Il giudice che aveva impostato le inchieste su di noi era in quota Pci. E così mentre i miei compagni di scuola si facevano tra i 5 e i 7 anni di carcere preventivo in attesa del processo, e delle assoluzioni per non aver commesso il fatto, io iniziai a fare politica, da solo, con la mia macchina fotografica.

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E vidi l’altra grande sconfitta. Quella degli operai alla Fiat del 1980. Durante quei 40 giorni andai una decina di volte a Torino, a vedere a tentare ci capire, come mai quelle persone che non conoscevo e non capivo erano così arroccati alle mura della fabbrica, del luogo del loro sfruttamento. Non capivo che la loro idea di futuro era quella.

Che erano letteralmente e caparbiamente attaccati quei cancelli, tesi e preoccupati, a ciò che per loro era il futuro. Quegli operai erano soli. Non erano più i protagonisti di una politica e di un sindacato che difendeva in primo luogo i propri soggetti. E bastarono 40mila borghesi organizzati dalla Fiat, dai padroni, per sconfiggere quegli operai.

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Capitolo 3

Negli anni a seguire continuai a fare politica con la mia fotocamera, occupandomi di operai, studenti, poveri, pacifisti e ambientalisti, non percependo il senso della sconfitta fino a quando non arrivò, nel 1990, il movimento studentesco della Pantera. Erano passati solo 13 anni dal 1977 e tornavo all’Università, alla facoltà di scienze politiche, a pochi metri dal luogo del misfatto di Lama, come fotogiornalista. Avevo 29 anni e parlavo con ragazzi di 23-24. Una cosa mi colpì subito. L’interno della facoltà era stato tappezzato di carta sulla quale erano stati scritti gli slogan.
Chiesi perché e mi fu risposto dagli occupanti: «per non sporcare». Ho ancora netta la sensazione di allora. Mi fermai subito e pensai: «Hanno vinto. Cossiga ha vinto. Non c’è più la memoria». Passai un mese dentro la facoltà dormendoci, lavoravo per tre giornali diversi e dovevo produrre una quantità di immagini impressionante. E il senso di sconfitta non mi abbandonò. Mai.

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E in tutte quelle sere la sensazione di sconfitta fu netta. Raccontavo agli studenti come avevamo rovesciato il camion di Lama, come avevamo ricoperto di scritte, disegni e vignette satiriche i muri verniciandoli direttamente, come avevamo svuotato la fontana del piazzale della Minerva perché era il luogo centrale dell’Università occupata e li volevamo fare le assemblee, come avevamo tappezzato di manifesti, con le foto su di noi di Tano d’Amico (queste foto), le mura esterne dell’università per informare i cittadini che non eravamo i mostri che ci dipingevano i telegiornali, come occupammo l’ufficio del preside di lettere perché ci serviva il telefono per inviare in diretta le assemblee alle radio libere.

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Non sapevano nulla di tutto ciò. I nostri nemici avevano vinto. Erano riusciti a recidere la cinghia di trasmissione di pratiche politiche, valori e informazioni che c’era stata dalla Liberazione del 1945 al 1977. E c’era quella cinghia di trasmissione. Sandro Pertini, per esempio,nel settembre 1977, a meno di un anno dalla sua elezione a Presidente della Repubblica, partecipò, tra la folla e senza scorta, ai funerali del compagno Walter Rossi ucciso durante un volantinaggio dai fascisti. Il resto è cronaca.

Epilogo

E tutto ciò ha influenzato la storia italiana degli ultimi venti anni, specialmente a sinistra. Una generazione, la mia, è stata respinta dalla politica e a quella successiva si è detto: «ideologie, valori, pratiche politiche sono cose vecchie. Oggi è la fine della storia, la politica è liquida, è moderna, la comunicazione e non i contenuti, sono importanti. L’importante è ciò che appari, non ciò che sei o fai. La coerenza è un orpello del passato». Il tutto per mascherare le elite politiche, il sistema di cooptazione personale che attiene al fare politica oggi, specialmente a sinistra. Nel frattempo, però l’economia morde come mordeva in passato, perché se diminuiscono salari, garanzie e diritti gli effetti sulle persone sono gli stessi ora come in passato. Matteo Renzi è il prodotto di tutto ciò, un giovane tremendamente vecchio, senza memoria e noi non abbiamo anticorpi validi. E allora perché meravigliarsi se l’81% dei giovani, privati da sempre i qualsiasi strumento politico nel momento in cui ne hanno uno fanno saltare il banco? (Comment are open and free).


Le immagini di questo articolo sono tutte del mio maestro Tano D’Amico che è il fotografo le cui immagini divennero patrimonio e memoria collettiva di noi ragazzi del ’77. A Tano va tutta la mia riconoscenza per il lavoro fatto e anche perchè senza le sue immagini non avrei mai fatto il foto giornalista. Grazie.

tanodamico


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