Campanello s’allarme per il clima. Infatti se da un lato c’è chi addirittura sta già assaporando la possibilità dei nuovi business legati al cambiamento climatico, come la coltivazione di specie mediterranee in nord Europa, oppure l’apertura di nuove rotte a ridosso della calotta polare artica, ed è ripreso il fenomeno delle trivellazioni in regioni estreme. Da un altro lato l’aumento delle capacità scientifiche legate allo studio dei cambiamenti climatici, legate all’osservazione satellitare alla maggiore rete di rilevamento a terra e all’aumento della capacità di calcolo – fondamentale in metrologia – consente di fare rilievi fino a poco tempo fa sconosciuti e di incrociare con profitto discipline complesse,quali climatologia ed economia. E non è un approccio nuovo questo, visto che è quello che sta alla base del rapporto Stern del 2006, il primo studio che pose l’accento sulla valutazione economica dei cambiamenti climatici, specialmente sul fronte dei costi degli effetti, questione che tiene ancora e non poco banco, quando si discute delle cosiddette esternalità ambientali e dello sfruttamento del capitale naturale. Il fatto che le emissioni climalteranti hanno un costo ben definito, presso la comunità scientifica è chiaro, la cosa, però, non pare assolutamente nota nei fatti ai decisori, energetici e politici, ne tantomeno viene trasmessa agli utenti finali. In questo quadro è assolutamente chiaro che se già la stima, fatta dal Governo statunitense, dei costi di ogni tonnellata di CO2 aggiunta nell’atmosfera è di 37 dollari, nei quali ci sono, per esempio, la minore produzione agricola e gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute, figuriamoci cosa dovrebbe accadere con uno studio fatto dalle ricercatrici dell’Università di Stanford, Frances Moore e Delavane Diaz, che hanno fissato questi costi in 220 dollari alla tonnellata di CO2: sei volte di più rispetto alla stima del Governo a stelle e strisce.
La ragione di questa differenza è chiara. Le ricercatrici hanno utilizzato un sistema generale di calcolo molto utilizzato in questo campo, l'”Integrated assessment model” (IAM), che è uno strumento molto impiegato come tool per il calcolo da parte dei decision maker in fatto di clima, perchè possiede al suo interno un’analisi dei costi e dei benefici legati alla riduzione delle emissioni climalteranti. «Se i costi sociali della CO2 sono più alti, molte più misure i mitigazione, passeranno all’analisi costi-benefici. – afferma Delavane Diaz – E questo perchè le emissioni d’anidride carbonica sono così dannose per la società che renderanno appetibili anche le operazioni di riduzione molto costose». In questa maniera si smetterebbe una volta per tutte di considerare gli extra costi delle tecnologie legate alla mitigazione, come le rinnovabili, non competitive con lo scenario Business as usual, ossia quello legato alle fonti fossili. Ma come sono arrivate le due ricercatrici di Stanford a un dato di costi così elevati? É semplice: hanno levato dal sistema IAM una serie di assunzioni semplificate, prima tra tutte il fatto che il modello non prendeva in considerazione gli effetti sulla crescita dell’economia. Il tanto agognato aumento di Pil.
«Per venti anni i modelli hanno dato per scontato che i cambiamenti climatici non avessero effetti sul trend di crescita. – afferma Frances Moore – Ma un buon numero di nuovi studi suggerisce che ciò può non è vero. E se i cambiamenti climatici affliggono anche la crescita e non solo l’output economico immediato, si ha un effetto permanente sull’economia che si accumula nel tempo, rendendo molto più alti i costi sociali della CO2». É questo l’assunto che sta alla base della nuova valutazione, la quale sarà di grande importanza specialmente per le nazioni più povere le quali sono notevolmente più sensibili rispetto a fenomeni come le piogge e l’innalzamento del livello dei mari. «L’effetto della nuova valutazione che non era prevista nei precedenti modelli IAM e ora è veramente difficile dire che le misure più aggressive di mitigazione, potenzialmente più costose, non trovano una giustificazione nei costi dei danni».
E a una lettura più attenta anche del contesto si può dire che con questi studi si è messa una buona volta da parte la lettura che vede i cambiamenti climatici, e i loro effetti episodici – come gli eventi estremi che sono i primi a causare danni – solo ed esclusivamente come dei deterioramenti marginali di un processo di crescita economica. Insomma i pregi di questa revisione delle metodologie sul calcolo dei danni provocati dai cambiamenti climatici sono quelli di averli inseriti all’interno di fenomeni strutturali che hanno riflessi sull’economia, la pari delle politiche industriali o monetarie, per esempio. La cattiva notizia, però, è che quest’approccio “salda” la crisi economica con quella climatica. E intanto il clima non concede sconti e non c’è nulla che funzioni alla stregua del “Quantitative easing” della Bce sui cambiamenti climatici. Il 2017 è sulla buona strada a divenire l’anno più caldo dal 1880 e la concentrazione di CO2 in atmosfera è arrivata al record di 407,22 parti per milione.
Lascia un commento