È guerra. Non quella commerciale verso la Cina, o delle sanzioni verso l’Iran. È guerra tra il mondo ambientalista degli Stati Uniti e il neo Presidente Donald Trump. Che Trump sia contro l’ambiente è noto. Immediatamente dopo l’insediamento, Trump, infatti, ha iniziato a dare concretezza a ciò che aveva detto in campagna elettorale, al contrario di quello che alcuni pensavano, iniziando dai temi “interni” sui quali si era più speso, come il muro antimigranti verso il Messico e il bando verso i mussulmani di sette paesi arabi (infrantosi, per ora, sul “muro” della magistratira americana).
E nel frattempo ha iniziato a realizzare lo smantellamento di ciò che aveva fatto in materia d’ambiente, negli otto anni precedenti, Barak Obama. Con la nomina a segretario di stato del Ceo di ExxonMobil, Rex Tillerson, quella di Scott Pruitt a capo dell’Epa (Environmental Protection Agency) – che non è solo scettico circa il climate change, ma ha intentato qualcosa come 14 cause, sia nei confronti dell’Agenzia che ora dirige sia verso lo Stato dell’Oklahoma, contro i regolamenti in difesa dell’ambiente messi a punto dall’Epa – ha piazzato uomini “fossili” ai posti di comando.
E tra i primi atti esecutivi di Trump c’è lo sblocco degli oleodotti Dakota Access e Keystone XL, fermati da Obama. Voluto con tanta forza che l’Army Corps of Engineers (il genio militare che sovraintende alle grandi opere civili negli Usa) ha chiuso la valutazione d’impatto ambientale sugli oleodotti in anticipo. La reazione è stata immediata sia da parte degli ambientalisti, sia dei nativi americani Sioux. Il Dakota Access, infatti, passa nella loro riserva di Standing Rock.
Quello degli oleodotti non è solo un “corpo a corpo” con i Sioux che difendono i diritti sul proprio territorio, ma è anche un test di carattere nazionale. L’organizzazione ambientalista 350.org, attiva sui cambiamenti climatici, nel 2011 aveva messo alla prova l’amministrazione Obama proprio sulla chiusura dei cantieri degli oleodotti, facendone un indicatore circa la reale intenzione da parte del Presidente di lottare contro i cambiamenti climatici.
Una scelta che la dice lunga circa il pragmatismo con il quale operano le associazioni ambientaliste oltreoceano. Allora fu un successo, visto che la presidenza democratica fermò effettivamente gli oleodotti. Ma Obama è stato anche molto attivo per evitare la “non ratifica” da parte degli Stati Uniti dell’Accordo sul clima di Parigi, firmato nel dicembre 2015 durante la Cop 21.
Tutto è cambiato. Ora c’è l’An America first energy plan pubblicato il giorno stesso dell’insediamento di Trump sul sito della Casa Bianca. «Sfruttare le riserve energetiche domestiche non sfruttate», «implementare politiche energetiche locali che ci rendano liberi dall’importazione del petrolio», «usare i 50 miliardi di dollari di gas e petrolio scisto, non sfruttato per portare nuovi posti i lavoro agli americani», «dare nuovo impulso all’uso del carbone»: queste sono le linee guide dell’energy plan che si conclude in maniera esplicita: «Bisogna cancellare politiche dannose e inutili come il Climate action plan di Obama».
Fin qui la “controrivoluzione” trumpiana in materia di energia e clima. Per quanto riguarda l’acqua, sarà cancellato il Clean Water rule che assegnava all’Epa, quindi al governo federale, la tutela delle risorse idriche, mentre sul fronte dell’inquinamento dell’aria lo stesso Trump, durante l’incontro con l’industria dell’auto, ha annunciato un drastico ridimensionamento delle regole ambientali sui veicoli e ha definito l’ambientalismo come «fuori controllo». Insomma ci sono i presupposti per un attacco a 360 gradi sul fronte dell’ambiente, compreso un possibile intervento demolitivo degli accordi sui cambiamenti climatici ben più duro di quello fatto dal presidente americano durante la campagna elettorale.
Tutto perso per i prossimi quattro anni, quindi? No. Perché è Trump e il suo staff di antiambientalisti dovranno fare i conti con un’opposizione trasversale, che va dalle associazioni ambientaliste a quelle per i diritti umani, dai singoli Stati fino agli enti locali.
«Nella peggiore delle ipotesi, Trump potrà ritardare la transizione alle rinnovabili, ma non la fermerà. – afferma Cassady Craighill, portavoce di Greenpaece Usa – Farà di tutto per il petrolio, il gas e il carbone, ma non può fare nulla circa il fatto che le rinnovabili battono le fossili sul fronte dei posti di lavoro e degli investimenti».
Non mancano, in questa direzione, segnali importanti. La California, attraverso il suo governatore Jerry Brown, ha deciso che non solo non seguirà le indicazioni del presidente Usa, ma rafforzerà la difesa ambientale. Persino se Donald Trump dovesse tagliare i finanziamenti federali alla Nasa per la ricerca sul clima.
«Abbiamo scienziati e avvocati e siamo pronti a combattere – ha detto Brown, durante un discorso all’American Geophysical Union a San Francisco – Se la presidenza spegnerà i satelliti della Nasa che forniscono i dati sul clima, la California lancerà il proprio “dannato” (testuale, N.d.r.) satellite». E l’intera West Coast è con la California. L’opposizione riguarda tutti gli stati affacciati sul Pacifico e non solo su ambiente e clima, ma investe sanità, istruzione, matrimoni omosessuali, immigrazione e altro ancora.
Contro lo “tsunami Trump”, la variegata compagine che gli si oppone adotta visioni d’insieme a cui, in Italia, non siamo abituati. Su tutti i siti delle associazioni, ambientaliste e no, è un fiorire, infatti, d’appelli che incitano alla resistenza civile. Si va dall’invito a scrivere al proprio deputato o senatore di riferimento su questioni sia nazionali che locali, a quello per la Marcia per la scienza e l’ambiente, che si terrà il 22 aprile a Washington in occasione della giornata della Terra, fino all’appello a sostenere, con il proprio computer il download dei dati climatici presenti sui siti federali, nel timore che siano cancellati su ordine della presidenza.
E in tutti i siti appare a caratteri cubitali la scritta “donate“. Un appello che funziona. Gli organizzatori della marcia del 22 aprile hanno raccolto, infatti, a due mesi dalla manifestazione oltre 70mila dollari .
«La società civile negli Stati Uniti è molto forte, con ogni probabilità più forte rispetto ad altri paesi e penso che questa forza non sia diminuita con la vittoria di Trump. – dice a Nuova Ecologia, Adam Beitman, portavoce di Sierra Club, la più antica (1892) e partecipata (2,4 milioni d’iscritti) associazione ambientalista degli Usa – Chi ha votato per Trump, non ha votato per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua e l’opposizione a ciò ci sarà e sarà determinata».
La strategia degli ambientalisti è quella di combattere contro carbone, petrolio e gas, puntando sull’elettricità da rinnovabili, senza trascurare salute e occupazione. Da questo punto di vista è interessante l’iniziativa di Robert Reich, ex ministro del lavoro di Bill Clinton: sul sito Inequality Media spiega con una serie di brevi, ma professionali ed efficaci video, quali sono i risvolti negativi dell’amministrazione Trump per i cittadini. La sensazione è che, al contrario di quando accade spesso in Europa e in Italia, negli Stati Uniti l’opinione pubblica conti davvero, e anche parecchio. Una leva su cui punta l’opposizione a Trump. Anche perché c’è già un precedente: la guerra del Vietnam fu persa sul fronte interno e non sul campo di battaglia.
Sergio Ferraris giornalista scientifico, direttore di QualEnergia
Questo articolo è stato pubblicato su La Nuova Ecologia, numero di marzo 2017
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