Bufale, disinformazione, fake news, bugie. Chiamiamole come volete ma sembrano essere la nuova emergenza, specialmente sotto il profilo dell’informazione. Specialmente in settori “critici” come quello sanitario e ambientale. Cambiamenti climatici e vaccini in testa. E le fake news bisogna conoscerle per difendersi.
Sull’effetto serra la battaglia non è di oggi, ma ora si sta assistendo, forse grazie all’elezione di Donald Trump, a una recrudescenza dell’attacco alle certezze sul clima che in Italia vede in prima fila un grande media cartaceo come il Corriere della Sera, al quale con ogni probabilità non sono bastati 25 anni di studi e accordi internazionali per abbandonare la posizione negazionista.
L’inserto culturale del quotidiano di via Solferino il 26 febbraio 2017 se ne è occupato con un articolo di due pagine intitolato “Credetemi il clima non si sta surriscaldando”, interpellando William Happer, un fisico nucleare che non ha mai pubblicato nulla sul tema a livello scientifico, è consulente delle lobby fossili statunitensi e durante un’inchiesta giornalistica si è reso disponibile a scrivere sui “benefici” della CO2 a 250 dollari l’ora. E di fake news Happer nell’articolo ne ha rilanciate diverse.
Si va dalla, presunta, inattendibilità dei dati circa la temperatura al suolo, al fatto che la Co2 non è un inquinante, passando per il riscaldamento della Groenlandia nell’epoca dei Vichinghi (che è un evergreen dei negazionisti). Ma non finisce qui.
Ad Harper è stato “contrapposto” il climatologo Mark Cane, al quale è stato dato meno spazio e nessuna citazione nel titolo e nel sommario, ma che non sapeva, soprattutto, quale uso sarebbe stato fatto delle sue parole. Ossia il dibattito con Happer che in realtà non c’è mai stato, come afferma Cane in una sua lettera al Corriere della Sera del 10 marzo.
Ma cosa c’entra un prestigioso giornale cartaceo con il dibattiti sulle fake news, che dovrebbero essere un’emergenza legata al web e ai social network?
«I social hanno fatto emergere il problema in maniera evidente – risponde Alberto Puliafito, direttore di Slow News – ma in realtà le fake news ci sono sempre state. La prima documentata, secondo il sito hoaxes.org, è l’Editto di Costantino, una fake news che qualche effetto lo ha avuto».
Guardando, più da vicino, alla storia degli ultimi decenni nel nostro Paese, i cosiddetti “misteri italiani” da Piazza Fontana a Ustica, hanno avuto una base ben radicata in fake come la colpevolezza di Pietro Valpreda e il cedimento strutturale del DC 9 di Itavia. «Oggi abbiamo un mix micidiale fatto dal modello di business giornalistico legato al click veloce e dalla diffusione di questi contenuti sui social network – prosegue Puliafito – e a un logica che dice “intanto pubblichiamo perché sono usciti gli altri, poi vediamo”».
Le “fake news” sui vaccini
Quella dei vaccini è, invece, una vicenda più complessa. In questo caso, infatti, si tratta di una fake news originaria: la pubblicazione nel 1998 su Lancet, una tra le più prestigiose rivista scientifiche del mondo, dello studio del medico britannico Andrew Wakefield, che “provava” un legame tra il vaccino trivalente, morbillo, parotite e rosolia e un nuovo tipo di autismo, l’enterocolite autistica, scoperto dal medico stesso. Il tutto basandosi su un campione di 12 bambini con 8 casi che “confermavano” le tesi di Wakefield.
L’autore dell’articolo organizzò anche una conferenza stampa in cui chiese la sospensione del vaccino trivalente e la vaccinazione singola per ognuna delle tre malattie. Fu il giornalista investigativo Brian Deer a smontare la ricerca, dimostrando che i dati erano falsi e che Wakefield aveva interessi economici, avendo brevettato un vaccino che, guarda caso, non induceva, l’enterocolite autistica, malattia di fatto inesistente.
Nel 2010 Wakefield fu radiato dall’ordine dei medici britannico e Lancet ritirò la ricerca, ma il danno ormai era stato fatto. Tra il 1998 e il 2012, in Gran Bretagna, i casi di morbillo sono passati da poche decine a circa 2.000 segno che la prevenzione con il vaccino è andata in crisi.
Un allarme che è arrivato ai massimi livelli visto che l’Oms ha lanciato agli inizi di marzo 2017 il Vaccine safety net, un network mondiale di 47 siti web in 12 lingue in grado di informare 173 milioni di persone al mese, per dare informazioni certe e accreditate sui vaccini.
La diffusione delle tesi antivaccini non accenna, comunque, a diminuire. Come mai? Tra la cause, indirette, c’è anche la decisione del social network per eccellenza, Facebook, di modificare il proprio news feed, ossia l’algoritmo che decide cosa appare sulla nostra timeline.
I post che visualizziamo, infatti, non sono lo stream, ossia tutti quelli “trasmessi” dai nostri “amici”, ma una selezione che appartiene solo a quelle delle persone con cui interagiamo.
Basta mettere un commento o un parere su un post per far sì che siano proposti post della stessa persona o su argomenti simili. Un fatto che rafforza la propensione psicologica alla “bolla” che abbiamo tutti. Ossia il fatto che tendiamo a cercare informazioni che confermino ciò che già pensiamo.
«È vero che le fake news girano in rete, ma non sono solo appannaggio della rete», conferma Paolo Attivissimo, giornalista informatico e studioso della disinformazione dei media che si interessa di fake news dagli anni ’90. «Il problema sono anche i giornalisti che non fanno verifiche – aggiunge – e hanno come fonte solo il web.
Poi bisogna dire che con il terrorismo psicologico si ottengono molti click e ciò ha creato un’industria di approfittatori, dei veri e propri pusher di panzane, la versione moderna dei giornali scandalistici, con dei costi d’avvio che non sono quelli del passato e con un’efficienza molto maggiore. Un salto di qualità preoccupante visto che ora si è arrivati a toccare argomenti come i vaccini e il clima».
Giornalismo di qualità contro le fake news
Secondo Attivissimo il debunking deve essere fatto con il giornalismo di precisione e selezionando bene ciò a cui si replica. «Al fatto che la Terra sia piatta non si risponde, ma al senatore Bartolomeo Pepe che porta le scie chimiche in Parlamento si risponde eccome», continua Attivissimo che ha smontato le cosiddette scie chimiche con un semplice ragionamento fisico sul suo blog arrivando a determinare, con tanto di calcoli, che anche se gli aerei spargessero il temibile gas nervino VX, a terra ne arriverebbe una concentrazione in grado di far colare il naso.
Forse. «Il giornalismo non deve raccontare le opinioni, ma i fatti e non funzionare in base all’agenda personale del giornalista o dell’editore. – conclude Attivissimo – Bisogna raccontare come funziona il mondo e farlo investendo in qualità giornalistica».
Non è un aspetto marginale. Le “bufale” velocizzate dal web stanno influenzando in maniera pesante la filiera giornalistica. «Buona parte delle fake news sono, da sempre, diffuse da organi d’informazione “classici” che poi sono quelli che si scagliano contro il fenomeno. – sostiene Pierluca Santoro, consulente marketing e comunicazione e tra i fondatori di DataMediaHub, un osservatorio sull’editoria tra i più qualificati – E non penso che in generale ci sia malafede, perché in quel caso si diffondono notizie in maniera strumentale per un obbiettivo preciso e determinato. Un meccanismo noto, la “macchina del fango” che si è messa in moto, per esempio, contro l’ex direttore di Avvenire Dino Boffo». Secondo Santoro, infatti, l’amplificazione delle fake news da parte degli organi d’informazione è dovuto a carenze strutturali nelle redazioni.
«Primo, in Italia non esiste la figura professionale del fact-cecker. – prosegue Santoro – La seconda questione è che siamo caduti nella trappola dell’immediatezza della notizia ai tempi d’internet. E visto che le risorse umane allocate dalle redazioni nei web desk per produrre i contenuti dei siti sono di gran lunga inferiori a quelle delle edizioni cartacee, ecco che chi scrive sul web cade in errore. Anche perché da noi in Italia non c’è osmosi e comunicazione tra i due sistemi».
Una reazione necessaria alle fake news
Il rischio non è più solo confinato nella sfera dell’informazione, ma è sbarcato anche nella politica, dopo il ruolo determinante assunto dalle fake news nelle elezioni di Donald Trump. E sono gli effetti, non tanto le quantità a preoccupare.
«In realtà se guardiamo ai dati ci rendiamo conto che in Italia le condivisioni sui social delle fake news sono una piccola percentuale rispetto a tutti gli articoli d’informazione che girano in rete e sui social. – prosegue Santoro – La novità sta nel fatto che ora la questione si affronta in maniera sistematica e sistematizzata, forse per la prima volta».
A sollevare il dibattito tra operatori dei media, social network e politica sono state anche iniziative come quella lanciata dalla presidente della Camera, Laura Boldrini (si veda l’intervista sulle fake news qui), con una campagna di raccolta firme.
I grandi operatori di internet hanno una posizione problematica. Da un lato si rendono conto che una proliferazione delle fake news minerebbe alla radice la loro affidabilità, mentre dall’altro lato sanno che combattendole fino in fondo perderebbero click che per Facebook e Google significa perdere fatturato. «Si devono rallentare i ritmi – conclude Santoro – come fece il New York Times quando fu rieletto Barak Obama, che diede la notizia della sua vittoria con due ore di ritardo rispetto alla concorrenza, aspettando la certezza dell’elezione.
È evidente che si è dato degli standard con i quali privilegia la qualità dell’informazione rispetto all’immediatezza sfrenata». Il problema deve essere affrontato alla radice, insomma, cominciando dal vertice della filiera dell’informazione, ossia dai giornalisti che devono fare le verifiche necessarie, resistere alle pressioni degli editori per fare traffico a tutti i costi ed essere messi in condizione di realizzare tutto ciò.
Ed è possibile. Ci sono manuali per verificare i contenuti on line generati dall’utenza (vedi il pezzo sul Verification Handbook) mentre per evitare di “moltiplicare” le bufale, è sufficiente per i giornalisti prendersi più tempo, verificare e selezionare le proprie fonti, facendo diventare le proprie testate, e loro stessi, dei brand affidabili. Si otterrebbero tre risultati: offrire ai cittadini un’informazione più attendibile; ricostruire un rapporto di fiducia tra giornali, giornalisti e lettori; arginare l’invasione delle fake news, che stanno già contaminando la vita politica e mettono a rischio la democrazia.
Questo articolo è stato pubblicato su La Nuova Ecologia
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