L’Ilva stringe Taranto in una morsa ed è a sua volta stretta da un legame mortale a un mercato in crisi. La radice della crisi dello stabilimento di Taranto in realtà non risiede nell’abolizione degli scudi giudiziari che “consentirebbero” il proseguimento dell’attività nonostante l’impatto sull’ambiente circostante ma nelle sempre peggiori condizioni del mercato dell’acciaio a livello mondiale.
Nel giro di un anno il prezzo del coils a caldo prodotto dall’Ilva è calato da 550 a 400 euro alla tonnellata, mentre nel 2018 lo Steel Committee dell’Ocse ha calcolato che per quell’anno il mercato dell’acciaio aveva un eccesso di produzione, a livello mondiale, di 425,5 milioni di tonnellate.
In Europa, oltre a ciò, la riduzione della capacità produttiva dell’acciaio è aggravata dalla minore domanda, intorno al 20%, da parte dell’industria automobilistica tedesca cosa che si somma alla già strutturale riduzione di utilizzo dell’acciaio nell’auto, fenomeno che dura da decenni. Ed è uno stop generale.
Salzgitter ha chiuso un altoforno da 600 mila tonnellate l’anno, ArcelorMittal ha fermato una serie di altiforni a Cracovia, nelle Asturie a Brema, riducendo la produzione a Dunkirk e Eisenhuttenstadt, Ssab ha tagliato 1,8 milioni di tonnellate all’anno a Raahe in Finlandia e a Oxelosund in Svezia, mentre Liberty ha tagliato del 20% la capacità dello stabilimento di Ostrava.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che dove si ristrutturano le acciaierie a parità di produzione cala in maniera drammatica l’occupazione come è successo in Austria nel nuovo stabilimento della Voestalpine per acciai speciali che ha una produzione da 500 mila di tonnellate l’anno e nel quale i 950 addetti del 1970 ora sono diventati 14 a causa dell’automazione legata a ai principi di Industria 4.0.
«Taranto è in forte declino. I giovani le cui famiglie hanno disponibilità economiche vanno a studiare fuori e non tornano una volta finiti gli studi. – afferma Alessandro Marescotti ambientalista e storico fondatore di PeaceLink – Non si vede alcun piano per il futuro della città e il mantenimento dell’occupazione all’Ilva è un’illusione».
Il dibattito circa il futuro di Taranto ruota attorno a logiche che nella migliore delle ipotesi sono per l’appunto molto ipotetiche. Si va dalla bonifica dei siti inquinati – che dovrà essere fatta – ma sulla quale le incognite sono parecchie – basti vedere la bonifica del sito siderurgico di Bagnoli che forse partirà nel 2020 a fronte della chiusura dello stabilimento nel 1992 -, allo sviluppo turistico di una città che ha una vocazione industriale e possiede collegamenti logistici decisamente deficitari. Una delle potenzialità che in realtà Taranto potrebbe adottare è quella delle rinnovabili e nello specifico dell’eolico off shore. Vediamole.
Offshore eolico Mediterraneo
L’eolico offshore così come lo conosciamo oggi è strutturato con delle logiche appartenenti ai paesi del Nord Europa, ossia caratterizzato da pale eoliche realizzate per fondali bassi, di solito intorno ai 40 metri, e fatte per resistere a condizioni meteo severe.
Nel Mar Mediterraneo le condizioni meteo sono decisamente meno severe, ma i fondali arrivano a profondità di migliaia di metri nel giro di pochi chilometri. Ragione per la quale è necessaria una tecnologia off shore diversa. Quella degli aerogeneratori off shore sia fissi, sia galleggianti, tecnologia quest’ultima nella quale a livello di ricerca come Italia siamo in pole position.
E Taranto su questo fronte potrebbe avere delle carte da giocarsi. La prima è la presenza di un’area industriale, quella dell’Ilva, che una volta bonificata, in potrebbe diventare un polo per la produzione degli aerogeneratori e della loro logistica, mentre la produzione d’acciaio potrebbe essere mantenuta in maniera ridotta una volta convertita l’acciaieria per esempio a gas come era previsto dal commissario Bondi, per esempio anche sugli acciai speciali che sono indispensabili per una parte dell’eolico off shore. Oltre a ciò la particolare conformazione di Taranto con i suoi “due mari” consentirebbe alle industrie dell’oil&gas, sia nazionali, sia dell’Unione Europea di avere un punto d’appoggio per travasare sia il loro know-how tecnologico, sia il loro modello di business, verso l’eolico offshore. Evitando così crisi finanziarie e occupazionali dovute alla riduzione nell’installazione delle piattaforme petrolifere.
Non è fantascienza. Si tratta esattamente di ciò che sta accadendo in Scozia dove molti soggetti attivi nell’estrazione petrolifera del Mare del Nord si stanno riconvertendo per l’installazione di pale eoliche e di generatori sottomarini per sfruttare le maree. Si tratterebbe di trovare un luogo nel quale possa operare nel concreto il Cluster Big (Blue Italian Growth) che è nato nel 2017 e riunisce 133 partner nazionali, tra cui 29 Università, tutti i centri di ricerca pubblici nazionali, (Cnr, Ogs, Ingv, Infn, Enea, Szn, Ispra) grandi industrie (Fincantieri, Saipem, E-Geos, Tecnomare), Pmi, cinque distretti regionali e undici regioni. Da non sottovalutare, oltre a ciò, sia la vocazione di Taranto per l’eolico, sia la sua posizione strategica. La città pugliese, infatti, vede la presenza dello stabilimento produttivo di uno dei maggiori costruttori di aerogeneratori al mondo, Vestas, ed è anche il primo sito dove si sta realizzando nel concerto un parco eolico offshore.
Mentre per quanto riguarda la posizione non è da sottovalutare il fatto che Taranto si trova nel centro del Mar Mediterraneo – e potrebbe rifornire il nascente mercato su questi mare – ma anche a poca distanza dal Canale di Suez attraverso il quale le pale eoliche Made in Italy potrebbero arrivare in Asia molto più facilmente di quelle prodotte nel nord Europa.
Sul fronte delle potenzialità occupazionali i calcoli non sono semplici da fare in questa sede, ma ci si può rifare al Regno Unito, dove una stima di Cambridge Econometrics ha fatto emergere il dato che l’eolico offshore, che è stato sviluppato da una decina d’anni, impiegherà, nel 2032, 60mila addetti tra occupati diretti e indiretti. E ciò solo pensando alle attività sulle coste britanniche e non all’esportazione di prodotto.
Ingredienti necessari
Ma questi sono ingredienti che non sono sufficienti per “cucinare” un Green New Deal anche a base di eolico offshore. Serve anche la volontà politica che si deve tradurre in una politica industriale che potremmo chiamare “corale” e su questo fronte non in Italia non ci siamo.
Un polo d’eccellenza come quello descritto non si può sviluppare in assenza di uno zoccolo duro di mercato interno e di un minimo d’incentivi. Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna rilevare che tutti i progetti eolici offshore italiani fino a ora presentati, a eccezione di quello di Taranto, sono stati bocciati per motivi “paesaggistici”, mentre quello di Taranto è stato osteggiato dalla Sopraintendenza per oltre otto anni sempre per la “tutela del paesaggio”, nonostante sorga davanti all’Ilva.
E una volta sbloccato il cantiere è stato immediatamente acquisito dagli statunitensi. Si trattava di un’argomentazione talmente vacua che nella sentenza finale del Consiglio di Stato, che lo ha sbloccato, afferma che l’installazione ha migliorato il paesaggio, mentre il parere del ministero dei Beni Culturali nel proprio parere afferma: «L’interferenza generata dal nuovo parco eolico non è dissonante rispetto all’attuale condizione dell’interesse paesaggistico dell’area, i cui valori restano preservati».
Per quanto riguarda gli incentivi per l’eolico offshore tutto è rinviato al Decreto Fer 2 del quale non si hanno notizie. Di sicuro sarebbe meglio utilizzare i fondi disponibili per incentivare questa fonte verde – sviluppando un nuovo polo industriale, generando energia rinnovabile che ci è indispensabile al fine di raggiungere gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni, per non parlare dell’Accordo di Parigi – che non pagare la cassa integrazione a zero ore che non farebbe che aggravare il bilancio statale senza prospettive di sviluppo. Teniamo conto del fatto che proprio la Vestas a Taranto chiuse la propria divisione Nacelles – che produce le navicelle degli aereogeneratori – per trasferirla in Spagna, attratta da nuovi incentivi pubblici iberici.
Sergio Ferraris è direttore di QualEnergia, rivista di Legambiente. L’articolo è stato pubblicato su il “Pianeta Terra” edito dall’Anev.
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