Tornerà. E magari anche presto. Passata la memoria elettorale che è di meno di sei mesi quella lunga, due settimane quella breve, tornerà. Matteo Renzi fin dall’annuncio delle sue dimissioni domenica 4 dicembre ha posto le basi per il suo ritorno. Quelle dimissioni, di stampo propriamente europeo, dopo sole due ore, senza la retorica del voto di sfiducia, anzi con la fiducia piena al governo sulla legge di stabilità, il suo non salire al Quirinale per le consultazioni, pilotandole dagli scatoloni di Palazzo Chigi, l’incarico a un suo ministro e una sostanziale lista dei ministri fotocopiata dal suo esecutivo, sono tutti segnali nei fatti che Renzi è già sulla via del ritorno al Governo.
E a ciò s’aggiunge anche una comunicazione precisa che riparte dal personale, captando gli umori delle persone. «Torno semplice cittadino. Non ho paracadute. Non ho un seggio parlamentare, non ho uno stipendio, non ho un vitalizio, non ho l’immunità. Riparto da capo, come è giusto che sia. La politica per me è servire il Paese, non servirsene», dice Matteo Renzi nella sua enews, mentre al Quirinale giurano gli stessi ministri, con Elena Boschi, promossa come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. E non poteva essere che così. Non si poteva scalfire il potere renziano nei fatti. Quello fatto di centinaia di uomini, e donne, messi nei posti di comando in questi tre anni, a cominciare dalla Rai, per finire a Cassa Depositi e Prestiti.
Ed è, forse, per questo motivo che il nuovo Presidente del consiglio dei Ministri non ha potuto spostare una singola casella. Perché quei ministri sono la cinghia di trasmissione tra la politica e il potere che Renzi ha costruito, mattone dopo mattone, in questi tre anni, durante i quali è stata sistematica la mutazione in chiave renziana della tecnocrazia italiana. Consob a parte, ma chissà visto lo stato di alcune banche che anche questo mattone mancante non sia voluto. E chiunque la conosca sa di cosa è capace la tecnocrazia italiana cresciuta all’ombra dei favori della politica. Sa di che cosa sono capaci i direttori dei ministeri e dei dipartimenti.
Un sistema è cambiato negli ultimi tre anni, non in meglio, mentre media ed opinione pubblica erano distratti dagli 80 euro o dai voucher. Renzi in questi anni è stato abilissimo, come un fine democristiano degli anni sessanta, nell’impossessarsi della macchina del potere reale, piegandola alle sue esigenze future. Per questo ritornerà e lo ha già annunciato sempre nella stessa enews.
«Ai milioni di italiani che vogliono un futuro di idee e speranze per il nostro Paese dico che non ci stancheremo di riprovare e ripartire. Ci sono migliaia di luci che brillano nella notte italiana. Proveremo di nuovo a riunirle», chiude Renzi.
Il Governo Gentiloni, quindi, non poteva cambiare. Non poteva tagliare questa cinghia di trasmissione il cui ruolo sarà fondamentale. Sia in caso di sconfitta di Renzi (che può aspettare anche 5 anni visto che oggi ne ha 41 di anni), sia in caso di vittoria di un’altra forza politica. Ipotesi quest’ultima che vedrà scattare in una perfetta sincronia la tecnocrazia, per bloccare la politica che si oppone al suo “creatore”. In ogni caso sarà una sconfitta, grave, per il paese.
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