Se la grande diga è insostenibile

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Chixoy, Guatemala estate 1982. Sono gli squadroni della morte, coperti dal Governo, a entrare in scena nel contenzioso che oppone gli indigeni Maya Achi della comunità di Rio Negro, all’Istituto Nacional De Eletrification (Inde) in una delle tante “guerre delle dighe”  che da decenni oppone autorità centrali e popolazioni locali sulle questioni legate ai megaimpianti idroelettrici costruiti, e in fase di costruzione, in molte zone del nostro Pianeta. Il bilancio di quell’episodio fu tragico. 482 persone che si opponevano all’apertura della diga sul fiume Rio Chixoy, difendendo il territorio sul quale vivevano da secoli, furono trucidate, con l’alibi di una serie di operazioni “antiguerriglia” al fine di permettere il riempimento del bacino della diga, costruita in zona tellurica e il cui funzionamento è possibile solo al 70% proprio a causa di un terremoto che ha colpito il cantiere durante la fase di costruzione.

I fatti accaduti nel 1982 in Guatemala non sono un episodio isolato. Sono molte, infatti, le grandi dighe che minacciano, in diversi modi, i territori sui quali insistono i fiumi, spesso distruggendo habitat naturali, territori e culture che in quella zone trovavano posto da secoli. I numeri parlano da soli. Sono oltre 800mila le dighe funzionanti al Mondo, il 50% dei grandi fiumi ha subito alterazioni profonde e spesso irreversibili e sono 80 milioni i profughi ambientali scacciati dal loro territorio a causa dell’allagamento. Il tutto, molto, spesso per ottenere una manciata di megawatt a costi, spesso, proibitivi. L’esito dell’esperienza guatemalteca, sotto a questo aspetto è illuminante. Dei 550 MW previsti solo 385 sono quelli effettivamente prodotti, mentre i costi sono lievitati dai 270 milioni di dollari previsti a oltre 800, mentre la localizzazione è stata così sbagliata che la sedimentazione effettivamente registrata è molto più alta di quella prevista e si stima che entro venti anni il bacino sarà completamente pieno di sedimenti, se non si provvederà a costosi dragaggi che aumenteranno i costi d’esercizio.

Così l’opera che doveva liberare il Guatemala dalla dipendenza dal petrolio, per ciò che riguarda la generazione elettrica, ha diminuito la dipendenza del Paese centroamericano dall’oro nero che continua a spendere 150 milioni di euro l’anno per produrre elettricità con il petrolio, ma ha contemporaneamente aumentato il prezzo dell’elettricità all’utente finale, al punto che solo il 30% della popolazione può permettersi l’allaccio alla rete di distribuzione.

Perché così grandi

Le grandi dighe nascono per soddisfare sia l’esigenza di produzione elettrica, sia quella per l’irrigazione e sono figlie di modelli energetici e agricoli obsoleti, caratterizzati dal gigantismo unito allo sfruttamento intensivo delle risorse e del territorio. La maggior parte dei progetti, infatti, prevede sbarramenti sequenziali sullo stesso bacino idrico, come quelli del fiume Narmada, in India, dove sono previste 3.200 dighe, delle quali 30 grandi e 135 medie e hanno come conseguenze   la riduzione massiccia del flusso idrico, come nel caso di Assuan, sul Nilo, dove la diminuzione dell’apporto di acqua dolce ha prodotto come risultato un aumento della salinità del sud Mediterraneo, oppure la delocalizzazione di intere popolazioni, come nel caso delle Tre Gole, in Cina, dove verranno spostate oltre 1.300.000 persone.

E il modello negativo, al centro delle critiche internazionali è proprio quelle delle Tre Gole. Il progetto, varato nel 1992 per soddisfare la fame di energia del colosso asiatico, ruota attorno alla diga principale, in tutto sono 46, un mostro di due chilometri di lunghezza per 181 metri di altezza che una volta finita sarà tra le poche opere umane a essere visibile dallo spazio. A regime i 26 generatori da 680 MW l’uno produrranno circa 18 GW di elettricità utilizzando i 39,3 miliardi di m3 d’acqua accumulati nel bacino artificiale. L’impatto ambientale della diga sarà pesantissimo. Saranno oltre 800 i laghi, a monte e a valle della diga, destinati a sparire, cosa che diminuirà del 75% le riserve ittiche, 140 città e 1.400 villaggi saranno distrutti, cosi come 1.300 siti archeologici, mentre 1.300.000 persone saranno spostate e 350 milioni potrebbero essere quelle a rischio in caso di crollo. E l’ipotesi non deve essere così remota, se lo stesso Governo cinese, dopo l’11 settembre, ha inviato nella zona le truppe antiterrorismo. Un crollo potrebbe, secondo gli osservatori internazionali, avere gli stessi effetti di dieci ordigni nucleari. Ma il megaprogetto cinese non ha solo problemi ambientali e di sicurezza.

Il quadro finanziario di questa opera è, infatti, talmente dubbio che anche la Banca Mondiale, forte sostenitrice delle grandi dighe in altre parti del Mondo, ha ritirato l’appoggio al progetto. Per la costruzione della diga, nel 2009 anno per quale  è previsto il termine dei lavori, saranno stati spesi 35 miliardi di dollari, cosa che potrebbe portare il prezzo dell’energia prodotta a livelli poco competitivi, mentre non è ancora stata trovata una soluzione per le oltre 530 milioni di tonnellate di sedimenti che scorrono ogni anno nel fiume e che potrebbero mettere a rischio sia la stabilità della diga, sia il funzionamento delle turbine. Quest’ultimo problema è uno dei fattori chiave che hanno aumentato l’incertezza finanziaria del progetto. La rimozione dei fanghi, infatti, aggiungerà una serie di costi fissi che potrebbero portare il costo dell’elettricità a un prezzo tre volte maggiore rispetto a quella prodotta con centrali idroelettriche più piccole o impianti termoelettrici alimentati a gas.

Logica in perdita

Ma oggi il fronte delle dighe si sta incrinando. I grandi investitori internazionali iniziano a essere critici, anche se alcune banche d’affari come Morgan Stanley continuano a finanziarle, mentre nel 2004 il Premier cinese Wen Jiabao ha bloccato il progetto della diga sul fiume Nu citando, ed è la prima volta, i costi sociali troppo alti e la mancanza della valutazione d’impatto ambientale. Come tutte le grandi opere, specialmente in Paesi dove la democrazia è a “sovranità limitata”, anche le grandi dighe sono fonti di corruzione, cosa che è anche connessa alla sicurezza. «Grandi profitti illeciti possono essere ottenuti utilizzando materiali scadenti». Recita testualmente un rapporto confidenziale della Banca Mondiale. Solo che se si parla di dighe la contabilità non è solo finanziaria. L’elenco dei crolli degli ultimi 50 anni è lungo, ma è sufficiente ricordare tre episodi. 1963 tracima la diga del Vajont in Italia: 1759 morti. 1975 crolla la diga di Banqiao in Cina: 85 mila morti per l’ondata di piena, 145 mila per fame ed epidemie. 2005 crolla la diga di Shadikor, ultimata da soli due anni, in Pakistan: 80 morti e migliaia di senza casa. Nel frattempo però si inizia a parlare di smantellamento delle dighe sia per il recupero degli ecosistemi, sia per motivi economici e all’avanguardia in ciò ci sono proprio gli Stati Uniti.

Al 1999 erano 467, di cui 28 grandi dighe, gli impianti demoliti e  oggi, nonostante il freno tirato dall’amministrazione Bush, il ritmo delle demolizioni è superiore a quello delle nuove costruzioni. Segno evidente della crisi di queste tipologie di impianti che potrebbero lasciare il posto alla tecnologia del mini e micro idroelettrico se solo si sviluppasse una logica legata alla generazione distribuita di piccola taglia, realizzata per servire le popolazioni locali e rispettando i territori e le culture dei luoghi.

Sergio Ferraris

L’articolo è stato pubblicato su Il Pianeta Terra

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