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SERGIO FERRARIS
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SOCIOLOGIA E GEOPOLITICA ENERGETICA ITALIANA

Energia EolicaProcessi decisionali e questioni tecnologiche si intrecciano e si sovrappangono quando si parla di scelte energetiche. Una riflessione di Claudia Bettiol, docente di Tor Vergata, affronta queste questioni in relazione alla situazione energetica italiana

Trattare le questioni energetiche è complesso perché queste per loro natura riguardano sia aspetti tecnologici, sia geopolitici, ossia inerenti gli equilibri internazionali degli Stati e talvolta di singole  regioni di  alcuni Stati. Per questo motivo i principali decisori possono essere sia tecnici che politici.  Storicamente a seconda del contesto contingente ha prevalso una delle due categorie e i principali attori appartenevano al settore “vincente”. Durante le fasi più turbolente, e quindi più creative in cui avvengono le vere innovazioni, però, si è avuto un sostanziale equilibrio fra i due gruppi di protagonisti.
Recentemente  le questioni energetiche hanno aumentato la loro complessità comprendendo anche aspetti ambientali di salvaguardia del pianeta e di contrasto al riscaldamento globale. Questioni che se teoricamente riguardano tutti gli abitanti del paese per motivi culturali ed economici, e quindi geopolitici nel vero senso del termine,  sono trattate solo da pochi protagonisti che non appartengono ai gruppi sopra menzionati.
Questa nuova complessità non solo allarga il numero dei decisori ma sposta completamente il palcoscenico su cui tradizionalmente venivano trattate le questioni energetiche ed obbliga tutti i protagonisti ad acquisire un nuovo linguaggio, a tessere un nuovo tipo di relazioni ed a guardare l’insieme da nuove prospettive.
Ripercorrendo brevemente l’altalenarsi dei principali attori nel processo decisionale nel settore energetico possiamo prendere confidenza ed acquisire alcune tecniche utili nella gestione di questa turbolenta fase geopolitica che stiamo attraversando.

Per molti anni la grande disponibilità di energia a basso costo, dovuta anche ad un limitato numero di persone che la potessero utilizzare, ha indotto false certezze fra li politici, gli imprenditori ed i cittadini.
La politica energetica è stata considerata risolta e mentalmente classificata in un archivio dopo la grande elettrificazione nazionale, prima, le leggi sull’isolamento termico e l’uscita dal nucleare, dopo. In questo modo, la politica energetica è rimbalzata tra la fase tecnica e quella ideologica scavalcando la fase strategica, che è quella geopolitica.
Da quel momento in poi gli industriali e gli imprenditori hanno iniziato a considerare l’energia come una voce di costo nei loro bilanci, i consumatori come qualcosa di inevitabile, ed anche loro come un costo fisso nei loro bilanci familiari, ed i politici come qualcosa di troppo tecnico o troppo ideologico per riuscire ad essere compreso. E comunque come qualcosa la cui comprensione poteva essere posticipata.
Un nuovo interesse politico riguardo le questioni energetiche è tornato ad affacciarsi con le direttive europee sulla competitività e la liberalizzazione dei mercati Europei. Queste leggi sono particolarmente interessanti perché hanno cambiato la forma del processo decisionale e le caratteristiche dei decisori. Oltre la fase politica – o non considerandola fino in fondo – i principali decisori nelle questioni energetiche sono i tecnici, originariamente ingegneri, ed ora finanzieri, economisti e avvocati.

Se noi modifichiamo il punto di vista ed ampliamo la sua angolazione, allargando il concetto di energia comprendendo anche i trasporti, noi possiamo vedere ancora più chiaramente la mancanza di una visione geopolitica, le scelte energetiche sono lasciate alla guida di oligopoli. Inizialmente si supponeva che questi oligopoli fossero controllati da pochi paesi (attraverso un consolidato sistema di alleanze) che erano comunque in grado di governare i mercati. Gli shock petroliferi degli anni ‘70 contribuirono a consolidare questa certezza definendo chiaramente il cartello dei produttori e quello dei clienti.
Recentemente il terrorismo e la globalizzazione hanno scardinato questo sistema di regole più o meno formalmente codificate ed hanno introdotto un grande numero di attori nel processo decisionale rivendo l’inadeguatezza di quei paesi che avevano abusato della delega politica verso alcune compagnie energetiche.

In questo modo è emersa l’assenza di leadership capace di cogliere le opportunità della complessità. Infatti ogni perturbazione di un sistema complesso non può essere totalmente controllata (sistema non lineare) e solo le persone capaci di mantenere una visione sopra le perturbazioni o le modificazioni locali possono comprendere la direzione globale dei cambiamenti.
Questa è la fondamentale differenza fra un manager ed un leader: è l’angolo di visione e la prospettiva temporale. Per questa ragione, le questioni energetiche sono realmente considerate appartenenti alla politica in pochi paesi. Per esempio, l’Unione Europa ha scelto una “via amministrativa“ piuttosto che una “via politica”, mantenendo un basso profilo.  
Ma un nuovo  elemento politico sta di nuovo modificando la cornice geopolitica. Si tratta della coscienza sociale del global warming, o la paura diffusa cambiamenti climatici associati all’azione dell’uomo all’interno di un equilibrio ambientale. Rispetto al cambiamento della opinione pubblica e dei cittadini emerge chiaramente l’assenza di una azione politica coordinata.
Oltretutto, dopo la liberalizzazione dell’energia molte persone non si sono mentalmente evolute in clienti. 

Infatti questo status corrisponde ad un complesso passaggio sociologico: da un concetto paternalistico dello Stato (sfumatura del socialismo) ad uno liberale (sfumatura del libertarismo). Da una concezione dell’energia come un costo, alla concezione dell’energia come una opportunità (attraverso l’auto-produzione, l’implementazione dell’efficienza o il cambiamento di abitudini associato alle nuove forme contrattuali nella fornitura di energia).
Il consumatore-cittadino è solo di fronte alle sue scelte e deve assumersi nuove responsabilità. Non è più l’edonismo degli anni ’80 quando la parola responsabilità era associate alla parola opportunità. Nel III millennio la parola responsabilità è associata con la parola rischio. E questo è del tutto evidente nella geopolitica dell’energia semplicemente leggendo la lista degli Stati che producono energia.

Per queste ragioni, sociologicamente la geopolitica dell’energia è sempre declinata come la geopolitica dei rischi e difficilmente si può pensare di trasmettere al consumatore-cliente-cittadino il senso delle opportunità offerte da un cambio di prospettiva. E per queste ragioni possiamo affermare che la fase ideologica non è  finita del tutto.
Lo shock del passaggio della mappa decisionale (da quella tecnica a quella finanziaria ed infine a quella della quotidianità), che qualcuno definisce come un vero e proprio shock culturale, è la causa della fine di ogni processo di “distruzione creativa”. La percezione Italiana dei rischi rallenta e paralizza il naturale dinamismo della vita.

L’evoluzione dei decisori
Da quanto detto sopra in Italia si è passati da un sistema libero, ad uno monopolistico ed infine ad uno liberalizzato in cui il principale attore è però ancora il vecchio monopolista con lo Stato come azionista di riferimento. Al momento è in atto un frenetico cambio del sistema di alleanze e fusioni transazionali che modifica gli assetti proprietari e  lascia molti perplessi per la perdita del controllo dello Stato.
Questa perplessità, comune anche in paesi come la Spagna o la Francia,  è in parte dovuta alla paura che un sistema capitalistico eccessivamente sbilanciato sul lato finanziario, in assenza di una strategia politica nazionale, depauperi il sistema imprenditoriale ed impoverisca tecnologicamente gli Stati. Ad esempio, in Italia la liberalizzazione dell’energia elettrica ha comportato la chiusura di alcuni centri studi privati, considerati un costo accessorio non strategico per le nuove aziende finanziarie. La ricerca ha riflessi nel medio periodo ed i brevetti possono essere acquistati.

Vediamo di seguito come questi cambiamenti abbiano modificato le tipologie dei decisori, e quindi il linguaggio con cui si affronta il tema dell’energia, e la struttura del processo decisionale. Si è passati dai politici, agli ingegneri ai finanzieri fino ad arrivare alle evoluzioni in corso, in cui vi è una forte richiesta di ritorno del primato della politica. La paura dei cambiamenti climatici, infatti sta riportando sulla scena i politici assieme agli scienziati che devono recuperare la dimensione dell’etica pubblica, superando il modello della frammentazione dell’etica privata.
La scomposizione della società, da una parte, ma anche la regionalizzazione degli Stati (analizzate dalle teorie del comunitarismo), dall’altra, hanno limitato sempre di più l’ampiezza dello spazio pubblico in cui si possono trovare scelte condivise da parte di individui anche con concezioni morali molto diverse.

Probabilmente il riduzionismo pragmatico con cui Habermas (1996) declina i campi di azione pubblica non sono idonei a gestire momenti topici come quello imposto dalle sfide dei cambiamenti climatici.
La parcellizzazione della società degli individui (Elias, 1987), unita ad una concezione fortemente liberale di estrema autonomia delle scelte soggettive ha raggiunto un livello così esasperato cha ha finito con il legittimare la struttura autoritaria di piccole minoranze (Hughes, 1993). Se con la fine del collante delle ideologie, le società si giustificano solo in quanto si reggono su un contratto di convenienze (Habermas, 1996), questa convenienza difficilmente può esplorare l’azione degli uomini nei confronti dell’ambiente. Fra società e comunità, gli individui del III millennio sembrano scegliere la comunità.
Senza introdurre nuovi legami legati all’autarchia energetica (dai californiani declinata con lo slogan Energyindipndencenow), con la nascita della comunità da un lato e la globalizzazione da un lato si è accentuato il divario tra etica pubblica e etica privata (Viano, 2002). L’etica pubblica ha ristretto la sua azione a pochi individui e talvolta viene a coincidere con l’etica privata.

La crisi dell’etica pubblica è invece destinata a risolversi se facciamo coincidere questa con il rispetto dell’ambiente, con il comune sforzo a ridurre gli effetti antropici delle emissioni climalteranti. In questo caso l’aggettivo pubblico deve comprendere l’intera umanità, tutti gli esseri viventi del pianeta.
E la complessità del mondo può essere risolta in quanto nasce proprio nel momento in cui si viene a scoprire che non c’è un mondo da svelare, bensì un mondo da proporre.
Questo è attendibile solo reintroducendo la politica, e quindi il soggetto, all’interno di questo universo segmentato. Si può così accettare l’irriducibile molteplicità dei punti di vista anche all’interno di uno stesso sistema di idee (Lazzara, 2003).

Torniamo alla storia del processo decisionale in Italia nel settore dell’energia per cercare di individuare le cause che ci hanno portato ad essere uno degli ultimi paesi sviluppati ad individuare una strategia energetica. Ed anche perché mentre in tutto il mondo i leader discutono di energia, in Italia questo tema è ancora marginale nell’agenda politica.

Il processo decisionale nelle industrie di Stato
Dal dopoguerra una serie di operatori privati aveva iniziato ad interessarsi della produzione di energia elettrica, in particolare delle rinnovabili. Con la nazionalizzazione del sistema energetico, la trasmissione e la distribuzione dell’energia elettrica sono state affidate allo Stato e le compagnie di produzione e distribuzione sono diventate un bene pubblico. Con questo passaggio accompagnato da una forte spinta ideologica, la fase politica ha quindi ceduto il posto ai tecnici esperti del settore. Politicamente la questione “energia” era risolta.
Le aziende di Stato non avevano problemi di azionariato diffuso ed il processo decisionale è stato asservito alle esigenze tecniche. In tale situazione il successo dell’azienda corrispondeva al prestigio dello Stato ed al vantaggio competitivo del sistema Paese e non della sola azienda.
La competizione avveniva sul piano della qualità delle scelte e delle sfide tecnologiche come quella di elettrificare l’intero paese.

La competizione avveniva anche sullo stato di efficacia degli impianti e della rete e, quindi, sul sistema delle manutenzioni. In questa situazione la prospettiva della ricaduta degli investimenti è di lungo respiro e sono tenuti in considerazione anche interventi con rientri nel lungo periodo, come quello delle grandi infrastrutture.
Con la nazionalizzazione e fino alla prima crisi petrolifera, quindi, il ruolo di protagonista era passato dai politici ai tecnici. Possiamo affermare che in questa fase le decisioni sono state guidate anche (se non principalmente) dal personale tecnico che in Italia ha supportato i politici.
Dalla fine degli anni 60, però, si è avviato un periodo caratterizzato da una accesa conflittualità di classe, una conflittualità che però conservava dei contorni molto netti ed era caratterizzata da posizioni apparentemente riconducibile agli schemi individuati da Dahrendorf (1988). D’altra parte marxismo e capitalismo si autosostenevano attraverso una reciproca Teoria del Complotto che di fatto creava un modello semplificato della realtà (Boudon, 2004) facilmente disponibile. Bianco e nero. La questione ambientale e tutta la comprensione della complessità delle relazioni, che correttamente possiamo definire con il termine ecologia del sistema, non suscitava interesse se non attraverso una contrapposizione alle forme più evidenti di inquinamento.

Ma se il conflitto di classe ha formalmente come obiettivo la distribuzione dell'autorità, è evidente che all'autorità non si mira come valore in sé, bensì come tramite di realizzazione di interessi definiti. L'avvicendamento del personale in posizione di dominio deve essere considerato, principalmente, «come l'aspetto strumentale di un processo che rappresenta sostanzialmente un mutamento strutturale. In questo senso gli avvicendamenti di personale non costituiscono in sé stessi dei mutamenti strutturali ma sono semplicemente una condizione perché nuovi interessi divengano valori o realtà» (Dahrendorf). 
Poiché le aziende erano nelle mani dello Stato, le perturbazioni degli anni ‘60 e ’70 non hanno influito sostanzialmente nelle strategie energetiche.
Ci interessa però sottolineare un aspetto tipicamente italiano che ha conseguenze anche nel presente. Per i motivi sopra riportati, ogni conflitto di classe contiene in se anche un conflitto generazionale. Ed infatti il problema generazionale si presenta oggi in Italia in cui è venuta a mancare la forza rivoluzionaria dei conflitti di classe. La frammentazione della società, e la conseguente trasformazione della lotta di classe in competizione individuale, indica che il mutamento sociale si è fermato, che le istituzioni non sono più dinamiche e che viviamo in una società stagnante.

Questa gerontocrazia alimenta un alto senso di rischio del futuro percepito non solo nella sua naturale incertezza ma nella sua pericolosa indeterminatezza (Lupton, 2003).
L’assenza di interesse nel futuro (e la paura) può giustificare la mancata traduzione nel linguaggio quotidiano delle questioni energetiche che non vengono riconosciute nella loro distanza temporale.
Si ha l’impressione di una evidente rottura fra presente e passato. Simmel (1892) lo spiega affermando che il passato è oggetto di rappresentazioni mentali depositate nella mente, idealizzate e semplificate, mentre il presente è percepito nella sua immediatezza, caotica ed indecifrabile.
Di conseguenza, più uno ha passato e meno è interessato al presente e men che mai al futuro.
Gli shock petroliferi degli anni ‘70 ed ‘80 hanno ricondotto l’energia al suo naturale ruolo geopolitico ma hanno portato in Italia ad uno strano paradosso. Superata la fase geopolitica di organizzazione del sistema di alleanze, i politici hanno lasciato ancora una volta il ruolo ai tecnici. Diversi dai precedenti. Dei tecnici che nel frattempo avevano iniziato un processo di iper-specializzazione ed avevano perso la visione olistica dei processi sociali che legano l’utente-cittadino ed il produttore-Stato.

Non è un caso che negli anni 80 l’Italia ha emanato un sistema di leggi che è alla base della recente direttiva europea sulla certificazione degli edifici e sulla cogenerazione. Ma queste leggi hanno mancato il loro obiettivo per un motivo fondamentale.
Aver ceduto il controllo delle scelte energetiche a questi tecnici puristi della materia, ha significato modificare il piano linguistico in cui avviene lo scambio di informazioni (Bettiol e Olivieri, 2007).
E questo è avvenuto perché i tecnici si sono autoproclamati filosofi (nel senso della Repubblica di Platone) ed hanno modificato la loro naturale struttura linguistica arrivando la punto di racchiudere lo scibile umano entro gabbie linguistiche non condivise (Feyerabend, 1975).
E’ noto che ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto ed uno di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicativo. Secondo la teoria degli atti linguistici, un qualsiasi enunciato non descrive solo il suo contenuto o sostiene una verità. La maggior parte degli enunciati servono a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo per esercitare un particolare influsso sul mondo esterno.

Se la comunicazione di questi tecnici-filosofi era intesa piuttosto che come un mezzo per risolvere le inefficienza energetiche, cioè ad auto affermare la propria superiorità culturale, allora avviene la separazione relazionale di “classe” fra chi parla e chi ascolta.
Le leggi energetiche degli anni ‘80 erano scritte da esperti energetici ma erano dirette a cittadini ed a coloro che operavano nel settore delle costruzioni i quali non avevano lo stesso linguaggio. Impostare questo rapporto solo su un piano digitale (verbale o numerico) escludendo quello analogico (non verbale, paraverbale), ha significato non comunicare. Non far applicare le leggi energetiche.
Ed è quello che è avvenuto. I tecnici si sono così ritrovati ingabbiati nei loro laboratori e nei loro recinti esclusi sia dai politici che dai cittadini. Pensavano di essere in una Torre di avorio e improvvisamente si sono scoperti in una gabbia.
I tecnici che hanno contribuito alla stesura dei testi hanno operato come i filosofi della Repubblica di Platone, nel senso che credevano di essere stati delegati per diritto all’organizzazione della vita della società. Ed è proprio in questo modo che hanno impostato le politiche energetiche.

Le leggi fondamentali sono state scritte con un linguaggio che non era quello pragmatico del quotidiano (linguaggio come mezzo di comunicazione) ma era quello ideale (tecnico-burocratico) del diritto che cerca di astrarre la realtà ricomprendendola entro entità fittizie. Norme universali che hanno ucciso la creatività degli individui. Specialmente quando hanno impattato il settore dell’edilizia.
Questo fatto ha provocato una tale frattura fra politici e tecnici che i primi sono stati incapaci di completare il sistema legislativo e, quindi, di renderlo operativo.
Dal punto di vista sociale, poi, il cittadino si è trovato incapace di comprendere l’ingegneria energetica ma anche privo di mediatori culturali in grado di tradurre i paradigmi energetici in un linguaggio socialmente riconoscibile.
Prendiamo il caso delle costruzioni (che ancora oggi rappresentano il punto più delicato del sistema Italia). I tecnici che operavano nel settore non erano (e non sono tuttora) educati nelle considerazioni energetiche riguardanti gli edifici o i sistemi urbani. Le leggi degli anni ‘80 hanno cercato di colmare questa lacuna senza far accompagnare questa evoluzione rapida con sistemi di formazione ed aggiornamento. Coloro che dovevano controllare la qualità delle progettazioni energetiche erano però i primi che non avevano dimestichezza con le questioni energetiche.  Questo fatto ha provocato uno shock cultural (Griswold, 1997) e ha alzato una barriera sociale che ha impedito l’applicazione della legge.

La mancanza di tecnici esperti ed in grado di dialogare con il sistema delle piccole e medie imprese, poi, ha creato un'altra barriera sociale alla diffusione delle energie rinnovabili. Sulla spinta della crisi energetica molti inventori e piccoli artigiani si erano cimentati in esperimenti fallimentari.
Questi artigiani, spinti dalla emozione della crisi energetica avevano tradotto nel linguaggio quotidiano le energie rinnovabili e cercavano di acquisire dimestichezza con queste nuove tecnologie. L’entusiasmo di questi inventori portò l’Italia in vetta alle classifiche per la produzione di energia da fonti rinnovabili avviando un sistema industriale nel settore delle energie rinnovabili.
Per questo la distanza fra tecnica e politica ha compito un assassinio. Ha ucciso l’entusiasmo e la creatività di un popolo. Senza dubbio, i rischi della politica possono essere avventatamente accresciuti o prudentemente ridotti, ma non possono essere evitati del tutto, a meno che non si rinunci alla speranza di grandi realizzazioni, buone o cattive che siano. E questo è esattamente ciò che accade quando la convinzione e la passione, la ragione e l’entusiasmo sono radicalmente separati, e quando questa dicotomia si aggancia a quella che oppone la tenuta del centro del caos alla dissoluzione (Walzer, 2001).

“Nulla di grande è stato mai compiuto senza entusiasmo”, scriveva Wado (1940). Anche l’entusiasmo del referendum del nucleare non avrà l’effetto positivo di trasformare la produzione energetica proprio a causa delle sopra menzionate barriere sociali.
In aggiunta, i mediatori culturali che erano stati individuati, gli Energy Manager, hanno avuto anche un altro effetto negativo. Il mancato accompagnamento manageriale al sistema produttivo, che sarebbe dovuto avvenire proprio dagli energy manager, ha impedito quella capitalizzazione degli errori che porta ad imparare dai propri sbagli ed alla evoluzione del sistema (La Bella, 2005).
Ancora una volta gli energy manager erano stati immaginati e “progettati” più come tecnici esperti di bilanci energetici che come manager capaci di dialogare con gli imprenditori (che nel sistema Italia sono costituiti principalmente da self made man a capo di imprese familiari di piccole e medie dimensioni) e incapaci di prendere decisioni complesse. Non erano esperti di project financing o di altre forme di FTT - Finanziamento Tramite Terzi - che non li facessero apparire come un obbligo di legge ma come una opportunità offerta al sistema imprenditoriale.
Questa distanza fra sistema legislativo e cittadino, ossia fra coloro che scrivono e promuovono le leggi e chi le deve rispettare, non si è manifestata solo nel settore energetico. Ed anche l’azione legislativa della UE è percepita come un ostacolo alla vita quotidiana del cittadino piuttosto che come una opportunità (intesa alla Habermas).

Il sistema delle leggi è sempre più usato come una costrizione piuttosto come uno strumento regolatorio di convivenza, come un metodo per riuscire a far convivere comunità multiculturali all’interno di un organismo nazionale unitario. Come vedremo, l’eccessivo numero delle leggi, alimentato dalla finanziarizzazione del sistema imprenditoriale occidentale, ha portato alla rottura definitiva dei legami che tenevano uniti gli Stati nazionali e che può essere recuperata solo attraverso una rivoluzione generazionale della classe politica dominante.

Il processo decisionale nel referendum
A seguito del disastro di Chernobyl la politica sembrava aver recuperato il suo ruolo all’interno della scena italiana. Il maggior contatto fra politica ed energia si è avuto con il referendum sul nucleare che aveva ideologizzato la politica energetica introducendo fattori emozionali in un campo fino ad allora lasciato ai tecnici. Il problema, però, è che a questa ideologizzazione non è seguita una strategia dell’azione politica che desse corso alle scelte.
L’uscita dal nucleare per un Paese povero di risorse naturali, infatti è possibile a patto di forti investimenti ed incentivi nel settore delle energie rinnovabili capace di attivare un inarrestabile flusso economico, sociale e politico (Csikszentmihalyi, 2003). Per questo, ancora una volta il governo aveva delegato ai tecnici la stesura di leggi e di programmi ma ha poi trascurato di monitorare la loro attuazione. E ancora una volta i tecnici hanno agito come i “filosofi” platonici ed hanno utilizzato un linguaggio molto specifico che precludeva una vasta comprensione da parte di un pubblico inesperto.

Per questo il fallimento della politica energetica. Se infatti negli anni ’80 l’Italia era nei primi posti delle classifiche sulle installazioni di impianti per le rinnovabili e sulle leggi per il contenimento degli sprechi nel settore delle costruzioni, la mancanza di guida (di leadership) ha fatto dissuadere i volenterosi.
Solo quando i tecnici subiscono la mediazione dei politici, il loro linguaggio diventa comprensibile ai cittadini attraverso quella che viene definita come una costruzione sociale della realtà (Berger e Luckman, 2002) e la macchina statale funziona.
Nel momento in cui è saltata questa mediazione ed i politici hanno subito i tecnici, rinunciando ad esercitare il ruolo di mediatori, la distanza fra le leggi ed i cittadini ha creato quella frattura precedentemente descritta nel sistema paese allontanando le questioni energetiche dalle opportunità strategiche del sistema paese.
E poiché la realtà avviene come costruzione sociale ed il linguaggio del quotidiano è quello che determina la realtà vissuta e non la realtà immaginifica, aver tolto dal linguaggio quotidiano dei politici le questioni energetiche ha significato averle archiviate (Pearce e Cronen, 1980). Il fatto che non se ne parlasse implicava il fatto che le questioni energetiche avevano cessato di essere un problema contingente.

Restava sullo sfondo il sogno di un mondo alimentato ad energie rinnovabili ma questo non appartiene al linguaggio quotidiano bensì a quello del futuro ideale.
L’aver ricondotto a forme ideologiche il linguaggio energetico all’interno del dibattito quotidiano in una società non ancora scomposta in comunità aveva portato alla nascita delle prime associazioni e dei primi movimenti ambientalisti organizzati modernamente. Si potrebbe parlare di “comunità di scopo” parallele alle comunità con riferimenti geografici.
Sono quelle associazioni che oggi hanno raggruppato la loro identità secondo quella logica analizzata nelle Teorie della Modernità Riflessiva (Giddens, 1994) (Beck, 2003) (Lash, 1994). Sono quelle associazioni i cui leader oggi si stanno trasformando in politici e sono gli unici che riescono ad essere credibili compiendo uno storico passaggio da “sognatori” a “decisori”.
E’ proprio il fatto che questi individui sono stati capaci di utilizzare un linguaggio comprensibile mantenendo una identità capace di sfidare gli anni che li rende credibili anche quando negli anni ‘80 rappresentano la fine della contrapposizione sociale dovuta alle classi ed una accentuazione della individualizzazione delle società. Le contrapposizioni sociali sono sempre più dovute ad uno strenuo rispetto delle minoranze che ha portato ad una accentuazione del diritto soggettivo a danno del diritto pubblico. Promuovere un nuovo significato dell’etica pubblica basato sul rispetto ambientale, cioè su temi con implicazioni universali e non soggettive, implica una rivoluzione generazionale.

Non riescono ad assurgere al ruolo di leader, invece, quelle persone che ancora non distinguono l’interesse pubblico predominante da quelli privati particolaristici. Annoiano. E poiché la fiducia in una società segmentata si conquista anche con la credibilità, è molto difficile che gli attuali leader siano ancora i leader di domani.
I politici che hanno governato durante questo passaggio non possono essere credibili nel momento in cui devono guidare il passaggio inverso dove, però, gli interessi pubblici sono rappresentati dalle azioni per prevenire i cambiamenti climatici. Anche se il passaggio non avverrebbe più verso compagnie pubbliche nazionali ma si invocano una compagnia pubblica europea.
In questa tensione per la definizione del limite e del confine fra etica privata ed etica pubblica basata su questioni energetiche (e quindi anche tecniche) diventa fondamentale il ruolo ed il coinvolgimento di tecnici nei processi decisionali.

Il processo decisionale nella liberalizzazione
Dalla fine delle contrapposizioni ideologiche (rappresentate dalla caduta del muro di Berlino) ha inizio la disgregazione nazionale con la delocalizzazione del sistema produttivo che porta alla finanziarizzazione del capitalismo (un parallelo politico dell’Impero Light di Ignatieff (2003)) con la rottura dei legami territoriali e la riscoperta identitaria delle minoranze che diventano comunità.
In sostanza, la chiusura dei grandi impianti industriali non solo provoca la fine delle lotte di classe ma anche la fine di una etica privata strettamente connessa ad un bene pubblico. Si rompono i legami sociali fra decisori e comunità territoriali di riferimento (Sennet, 1999).
I nuovi decisori imprenditoriali non seguono l’etica protestante descritta da Weber (…) a la logica matematica della Teoria dei Giochi (…) che non prevede assoluti etici di fondo. La negoziazione non è più intesa come momento di collegamento fra gruppi di persone diverse, come costruzione di un benessere condiviso, ma come il modo di massimizzare i profitti.

Si realizza perfettamente l’ordine naturale definito da quell’Homo Economicus di Von Neumann e Morgenstein (:::) che basa le sue scelte su postulati matematici e sillogismi che non consentono spazio alle emozioni. Si realizza la vittoria della matematica sulla ingegneria che è parallela alla vittoria del sistema legislativo sul cittadino ormai così articolati da aver perso il senso etico del loro esistere. Si perde la fiducia del cittadino nelle istituzioni. Il cittadino affronta la globalizzazione senza un supporto pubblico ed è costretto a riscoprire autonomamente i valori fondamentali che guidano la sua azione quotidiana.
Si parla di Teoria della Modernità Riflessiva anche riferendosi a questo ripiegamento dello Stato sugli individui. Una involuzione del generale sul particolare. Dall’oggettivo al soggettivo.
Ed è interessante ancora una volta andare ad esaminare il significato linguistico di alcuni termini all’interno di diverse comunità. Prendiamo ad esempio i termini “gioco” ed “ordine naturale” che molti economisti e filosofi svincolano totalmente dalla natura intesa fisicamente.

Latouche (2004) descrive in 8 tappe il modo in cui l’economia si autoproclama scienza ed assurge a sistema regolatorio globale e per questo si appropria del termine “naturale”. Ed è proprio con questo passaggio a scienza che, seguendo la logica della critica alla scienza di Feyerabend (1975), si  spiega la definitiva rottura sociale fra decisori politici e finanzieri-scienziati in cui questi ultimi sembrano prevalere.
Il dogma della scienza ha ucciso il dibattito politico perché ad una tesi scientifica si può rispondere solo con un’altra tesi scientifica. Questo ha impedito di vedere anche ciò che appare ovvio al buon senso comune. Questo è quello che ha portato i politici alla organizzazione amministrativa e finanziaria del Protocollo di Kyoto (dal Teorema di Coase del 1960) e del sistema delle Emission trading senza però associare a questo meccanismo quel trasporto emotivo capace di muovere all’azione politica (dal latino e-moveo).
Ancora una volta il linguaggio dei tecnici non si è riuscito ad integrare con quello quotidiano del mondo artigianale ed industriale ed una volta, abbassato il prezzo del petrolio, l’energia è tornata ad essere una tema relegato agli esperti del settore.

Con l’avvento della UE e la creazione di un mercato unico europeo, poi, gli Stati Membri hanno dovuto trasformare le aziende pubbliche in società per azioni aperte al mercato. La liberalizzazione dell’energia, seppure con la distinzione fra la gestione della rete di trasmissione e il sistema di distribuzione, ha cambiato le dinamiche del processo decisionale.
I primi nuovi attori del mercato sono stati i commercianti che, come sempre, sono i principali mediatori culturali della storia. I grossisti di energia sono stati i primi a far recuperare un collegamento anche linguistico fra i consorzi di piccole e medie imprese e le opportunità energetiche. Se la loro presenza, però, non ha avviato con forza un avvicinamento degli imprenditori alle questioni energetiche, ha certamente contribuito ad abbassare la diffidenza verso le opportunità offerte da una giusta considerazione di queste.
Ma i veri protagonisti delle liberalizzazione sono ancora i tecnici, i finanzieri capaci di navigare negli andamenti del mercato borsistico e del mondo delle scommesse energetiche. Non più gli ingegneri supportati dai centri studi vicini al sistema produttivo, ma decisori lontani dalle strategie industriali (Sennet, 2006). E il prezzo dell’energia è entrato nel mondo delle scommesse con il sistema dei Future. Salvo poi dover fare i conti con situazioni come quella della Enron e dei black-out premeditati in California.

Ma quale è la particolarità del sistema Italia? Torniamo all’energia. L’assenza di una leadership politica capace di avviare un cambiamento ed una generale concezione iperstatalista della azienda di Stato hanno frenato la  transizione da una generazione concentrata nelle mani del monopolista ad una generazione distribuita gestita da piccoli imprenditori. Da una parte il monopolista ha condotto la sua battaglia sul campo legale avviando  una “avvocatizzazione spinta” della cornice amministrativa che regolava il sistema della micro – generazione (proprio come è accaduto negli USA prima della emanazione del Solar Act, parallelo al Diritto al Sole degli antichi Romani).
In queste circostanze il compito dei leader politici sarebbe stato quello di aiutare la trasformazione culturale del sistema. Una rivoluzione tecnologica, infatti, deve essere sempre accompagnata da una educazione diffusa che deve raggiungere tutti i segmenti della società. In particolare questa rivoluzione che Mazlish (1993) definisce come la IV Discontinuità: la coevoluzione di uomo e macchina. Questo perché cambiare stili di consumo significa anche cambiare stili di vita ed avere nuovi paradigmi culturali, come vedremo meglio in seguito quando ci soffermeremo sulla transizione verso le rinnovabili.
Vediamo cosa intendiamo con il termine “avvocatizzazione”. La burocratizzazione del sistema significa che i decisori “filosofi” appartenevano non solo alla sfera tecnico-ingegneristica, ma anche a quella tecnico-amministrativa. Anzi, le liberalizzazione hanno di fatto portato alla definitiva ribalta di questo secondo gruppo di persone a discapito dei primi.

Per questo, la complessità amministrativa ed i fallimenti tecnologici di alcune iniziative imprenditoriali artigianali hanno di fatto condotto alla morte della creatività ed alla fine della libera iniziativa privata. Questo ha anche impedito una reale evoluzione del cittadino in cliente, nel momento in cui è avvenuta una liberalizzazione del mercato. Un cliente in grado di influenzare il mercato.
Al termine di questa digressione, si può comprendere perché in Italia le questioni energetiche non sono state alla ribalta nel dibattito politico come lo sono state in altri Paesi quali Germania, Giappone ma anche Cina e USA, seppure in modo differente.

Il processo decisionale nelle cambiamenti climatici
Se da una parte la UE ha favorito la liberalizzazione dei mercati ed ha creato la moneta unica, dall’altra ha anche compreso che questo processo le imponeva un ripensamento del suo ruolo all’interno del sistema di regole mondiale. La finanziarizzazione delle imprese avrebbe portato a delocalizzazioni sia produttive che fiscali. Da una parte le imprese spostavano gli stabilimenti in aree a basso costo di manodopera e dall’altra spostavano le sedi legali in aree senza tasse.
La strategia di Lisbona della UE è basata sui concetti base di capitale umano, prima, e di capitale relazionale (o di network) poi. Cioè su una innovazione che è di tipo sociale. In sostanza, rincorrere le logiche finanziarie può risultare perdente nel lungo periodo e non può essere compatibile con una struttura sociale tradizionalmente impostata sulle logiche del welfare e del weelbeing.
Ma alla strategia di Lisbona mancava ancora la comprensione della portata di una nuova rivoluzione che non sarà più solo sociologica o economica ma anche etica: quella dei cambiamenti climatici.

Come illustrato, il premio Nobel Coase aveva tentato di finanziarizzare la lotta all’inquinamento e sulla base del suo Teorema era stato impostato sia il Protocollo di Kyoto (e quindi il sistema delle Emission Trading) che il sistema dei Certificati Verdi e dei Certificati Bianchi. Ma la mancata adesione di alcuni Stati, unita ad una miopia di grandi multinazionali, non ha permesso di avviare con forza quel cambiamento prospettato ancora negli anni ‘60 da Coase.
L’accelerazione dei cambiamenti climatici, dovuta anche ad una forte spinta dei paesi emergenti, ha riportato a livello politico il disegno di un nuovo equilibrio planetario e la ridefinizione sia dei diritti pubblici che della lotta di classe. Con la differenza che alcune multinazionali, come quelle del settore delle ri-assicurazioni, questa volta appoggiano le politiche ambientaliste.
Fra le leggi della termodinamica e le leggi finanziarie stanno così vincendo le prime anche perché, come dice il poeta Leopardi, la “natura è indifferente all’uomo”.

Subito dopo la liberalizzazione la politica italiana non si è riappropriata della leadership energetica, ma ha continuato a delegarle alle maggiori aziende nelle quali ancora esercita un ruolo come azionista di riferimento. Ma ai vertici delle aziende non vi erano più i tecnici di una volta che conservavano un senso etico della loro missione. Ai vertici delle nuove multinazionali oggi vi sono manager guidati dalla competizione sul prestigio strategico della nazione, ma manager razionalmente guidati dai postulati dell’Homo Economicus di Van Neumann e Morgenstern. Un agire basato sul presupposto che i processi decisionali vengano sempre effettuati allo scopo di scegliere l’oggetto (bene o servizio che sia) capace di garantire al decisore il livello di utilità più alto possibile. Dove l’utilità garantita dalle alternative di scelta è sempre misurabile attraverso una metrica comune (che è quella della moneta) e dove l’Homo Economicus è sempre in grado di stabilire quale delle alternative di scelta sia la preferita seguendo la logica di un gioco matematico.

Global versus glocal leadership
Certamente se i termini di confronto dell’azione pubblica di fanno seguendo la logica del PIL, è difficile pensare di dare uno scossone agli attuali equilibri finanziari. Ma possiamo certamente affermare che i modelli decisionali sono destinati a cambiare in corrispondenza di catastrofi naturali (naturale nel senso fisico del termine e non in quello economico).
Questo in parte è già avvenuto localmente a seguito di fenomeni eclatanti ma circoscritti. Siamo poi così sicuri che in prossimità di elezioni, in un qualsiasi paese sviluppato del mondo, il manifestarsi di un evento calamitoso non modifichi l’esito della competizione cambiando il terreno in cui si svolge il dibattito politico?
Avrebbe sicuramente un ruolo l’emotività dell’elettore ma anche la credibilità etica del candidato. Si recupererebbe il senso dell’interesse pubblico sull’interesse privato.

La teoria prospettiva (prospect theory) di e Tversky (1979) cerca di comprendere il modo con cui le persone assumono le decisioni partendo dalla teoria dell’utilità attesa, ma tenendo conto della dipendenza delle scelte da un “reference point” in base al quale sono valutati guadagni e perdite. Il risultato finale è radicalmente diverso da un punto di vista euristico: la costruzione puramente logica di Von Neumann e Morgenstern viene sostituita da un misto di empirismo e psicologia.
Ma ormai sono molti gli economisti che cercano di considerare la felicità ed il ruolo delle emozioni nelle scelte (Evans, 2001) ma anche sulla reale efficacia di scelte determinate dalle emozioni che in questo modo assumono una loro forma di razionalità (Nussbaum, 2004). Fino ad arrivare a studiosi delle scienze cognitive come Sternberg (1988) e Goleman (1999) che riescono ad individuare e classificare l’intelligenza emotiva degli individui.

Accanto alla rivoluzioni “globale” delle liberalizzazioni, infatti, si sta profilando una nuova rivoluzione energetica che potremmo definire “glocale” : quella della micro – generazione diffusa.
La contrapposizione fra le due rivoluzione è veramente sorprendente in quanto gli scenari sono agli antipodi. Se la prima prende in considerazione macro sistemi produttivi e se la rete di trasmissione dell’energia rende indifferente la località di produzione della stessa, la seconda è fortemente ancorata al territorio in cui l’energia si produce e si consuma.
Il massimo dell’efficienza energetica, infatti, si realizza riassumendo localmente le produzioni combinate di energia con le esigenze di consumatori locali. In questo modo si realizzano delle isole energetiche in cui l’eccesso di produzione viene immesso nella rete generale. Si tratta di un ripiegamento delle logiche globali su se stesse in cui sono le esigenze e le opportunità locali che dettano le strategie di produzione.

A questo punto del processo, ci interessa fare una ardita lettura filosofica di che cosa significa favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili e della generazione distribuita. E per far questo riprendiamo la contrapposizione sociologica fra globalizzazione e glocalizzazione (che possiamo anche intendere come comunitarismo).
In questo senso il passaggio del cittadino dal ruolo di cliente al ruolo di micro-produttore può avere lo stesso significato di riscoperta della propria identità attraversi l’appartenenza a comunità- Comunità che possono, quindi, essere sia geografiche che culturali e che, nel nostro caso consideriamo come quelle legate alla “cultura dell’energia”.

Seguendo questa logica si comprende anche perché oltre una certa soglia critica non occorre più finanziare gli impianti fotovoltaici. L’essere diventati micro-produttori diventa un aspetto relativo allo stile di vita, diventa simbolico di una appartenenza ad una comunità.
Certo, questo fatto potrebbe essere analizzato anche in termini di marketing, ma in questo modo si perdono le sfumature filosofiche che guidano le emozioni degli uomini. Diventare micro-produttori infatti comporta anche il fatto di dover mantenere un ruolo attivo nel monitoraggio e nella manutenzione degli impianti che rende queste persone diverse dai consumatori passivi.
La questione culturale non deve essere sottostimata in un periodo in cui tutta lo conflittualità interna alle società è sempre più di tipo culturale e questo segna il passaggio sociologico dall’HEP - Human Exceptionalism Paradigm – al NEP - New Ecological Paradigm (Dunlap and Catton, 1979; Dunlap and Catton, 1994).

Per questo personalmente ritengo che affrontare le questioni energetiche distribuendo un ruolo ed una responsabilità ai singoli cittadini può contribuire a recuperare un filo comune, una etica pubblica, all’interno delle società multiculturali. E questa ri-attribuzione di responsabilità ed impegno soggettivo potrebbe avere l’effetto anche di ridimensionare il senso del rischio e la paura del cambiamento che caratterizza tutte le società benestanti (Beck, 2003). Altrimenti come conciliare il “global warming” con le politiche restrittive sull’eolico o le paure sugli impianti a biomassa ?
A mio avviso, il pragmatismo con cui Habermas affronta la definizione di regole comuni di convivenza può funzionare solo a patto che si recuperi una emozione comune. Un sogno raggiungibile attraverso il quale legare la realtà quotidiana con la realtà immaginifica.
Per questo, se i protagonisti tornano ad essere i piccoli imprenditori locali ed i cittadini, a maggior ragione quindi  necessitano di una leadership politica e tecnica. Questa leadership avrebbe il compito non solo di definire la cornice giuridico-amministrativa, ma anche di fornire una educazione diffusa.

Paradossalmente, quindi, la soluzione della generazione distribuita appare molto più filosoficamente vicina al liberalismo, all’etica protestante del capitalismo di Weber, di quanto non lo sono le liberalizzazioni europee che stanno trasformando i vecchi monopoli nazionali in oligopoli mondiali.
Paradossalmente si possono comprendere anche alcune istanze libertarie (Block, 1995). E sempre paradossalmente i nuovi leader italiani appartengono alla categoria dei giullari Shakespeariani che sembrano gli unici in grado di leggere la realtà senza lasciarsi fuorviare da inutili sovrastrutture che la nascondono al cittadino. In Italia, il leader più credibile ai giovani (ma alla gente comune più in generale) nell’affrontare i temi ambientalisti è un comico di nome Beppe Grillo. Mentre negli USA i politici diventano registi e vincono gli Oscar con documentari sui cambiamenti climatici.

Considerando l’espressione cinematografica con un ruolo analogo alla comunicazione letteraria dei secoli precedenti potremo concludere con una considerazione sul ruolo della letteratura nella vita di ogni individuo. “L’immaginazione letteraria induce dunque ad una individualizzazione di questioni che altrimenti resterebbero astratte, ma è proprio questa individualizzazione ad evidenziare la questione generale, a permettere l’astrazione (Turnaturi, 2003).

Claudia Bettiol
University of Tor Vergata
bettiol@ing.uniroma2.it

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© Sergio Ferraris
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