Quattro reattori, anzi no, otto. Cinque, sei centrali, se possibile anche di più. Il governo dà i numeri sul nucleare. E nei sogni del ministro Scajola, ridimensionati da Tremonti che teme l’escalation delle bollette, entro il 2020 l’Italia dovrebbe ricavare il 25% del proprio fabbisogno dall’atomo. Ma quali sono i luoghi in cui l’esecutivo vorrebbe rifilare il “bidone” delle nuove centrali? Abbiamo provato a capirlo esaminando le condizioni al contorno che determinano questa scelta. A partire dai quattro reattori Epr da 1.600 MWe di cui Berlusconi in primavera ha discusso con Sarkozy.
Tanto per cominciare bisogna scartare le zone sismiche, evitare i terreni soggetti a frane e alluvioni (cosa complicata nel Belpaese), reperire grandi quantità d’acqua per il raffreddamento (servono ben 100 mila litri al secondo per l’Epr). Evitando i fiumi che da qui a sessant’anni potrebbero diminuire drasticamente la propria portata a causa dei cambiamenti climatici mettendo in crisi, come nel 2003 in Francia e Germania, i reattori nucleari. Bisogna inoltre avere una rete elettrica con buona capacità di trasporto, possibilmente già pronta: la creazione di elettrodotti per le centrali nucleari troverebbe infatti una forte opposizione sul territorio. E poi sarebbe un costo aggiuntivo da caricare sul kWh nucleare dato che un km di elettrodotto aereo costa 500mila euro. A tutto ciò bisogna aggiungere la difficoltà di reperire zone poco abitate, aspetto problematico in un Paese con 197 abitanti per km2.
Centrale vecchia…
I punti di partenza per capire dove si vorrebbero posizionare i quattro reattori Epr sono due: le vecchie centrali (Trino, Caorso, Montalto, Borgo Sabotino e il Garigliano) e la mappa dei siti nucleari prodotta dall’Enea-Disp nel 1979, usata negli anni ‘80 per redigere vari, improbabili piani energetici che arrivarono a prevedere oltre 62.000 MWe di potenza installata. Ma sono i vecchi siti quelli più appetibili per il nuovo nucleare, poiché i loro costi d’adeguamento dovrebbero essere molto ridotti rispetto a quelle ex novo. «In Inghilterra l’azienda elettrica E.On chiede al governo che i siti su cui realizzare i nuovi Epr siano gli stessi dei reattori di prima generazione e che l’esecutivo si faccia carico del loro smantellamento – dice Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace – Il tutto per fare in modo che il costo di adeguamento dei siti sia minimo rispetto ai luoghi in cui il nucleare deve essere installato da zero». Dei cinque vecchi siti, quelli di Borgo Sabotino (Lt) e del Garigliano (Ce) dovrebbero essere esclusi in quanto scelti prima del Dpr 185 del 13/2/64 (che ancora definisce la procedura necessaria al nulla osta per costruire gli impianti nucleari commerciali) e collocati in zone troppo popolate. Trino (Vc) e Caorso (Pc) potrebbero essere altri due candidati se non fosse che in entrambi i casi si stanno ancora smontando le due vecchie centrali, mentre la quantità d’acqua necessaria al raffreddamento potrebbe diminuire nel tempo. Certo, si potrebbero realizzare dei sistemi di raffreddamento a secco ma questi, costi di costruzione a parte, abbasserebbero l’efficienza del reattore aumentando il costo del kWh atomico, cosa che all’interno di una logica di mercato non è proprio il massimo che un’azienda energetica possa desiderare.
…fa Buon Brodo
Meglio perciò andare al mare e con oltre 8.000 km di coste dovrebbe esserci l’imbarazzo della scelta. Gli occhi dei nuclearisti sono puntati su Montalto di Castro nell’alto Lazio, dove sorgono i due reattori incompiuti da 1.000 MWe. «Le ipotesi più probabili, partendo dalla disponibilità di trasporto della rete elettrica, sono Caorso, dove era previsto il raddoppio della centrale, e Montalto: sito ideale non per un reattore Epr ma per due – afferma G.B. Zorzoli, presidente di Ises Italia – In teoria per gli altri siti si può potenziare le rete, ma bisogna tener presente che quest’ipotesi allungherà i tempi, visto che dal punto di vista autorizzativo realizzare un nuovo elettrodotto è difficoltoso quanto realizzare una centrale nucleare».
Scarsa densità di popolazione, grande disponibilità d’acqua con due prese a mare già pronte, una rete di trasporto adeguata. Gli ingredienti per due reattori di quella potenza ci sono tutti. E la presenza della più grande centrale termoelettrica italiana nello stesso sito, quattro gruppi per 3.600 MW, non dovrebbe essere un problema dato che si tratta di un impianto che Enel utilizza malvolentieri per la sua scarsa efficienza ma che deve ancora essere ammortizzato. A confermare la “candidatura” c’è anche la recente visita che Pierre Gadonneix, numero uno di Edf, ha fatto nell’ambito di un tour per osservare i possibili siti nucleari italiani, commentando con favore quello di Montalto e affermando che le centrali italiane sorgeranno innanzitutto accanto a quelle “storiche”.ritorno al passato. Ma per capire meglio quali sono le possibili localizzazioni delle centrali bisogna guardare al passato.
Fra il ’73 e il ’74 Enel ordinò quattro reattori da 1.000 MW da realizzare a coppie a Montalto di Castro e Campomarino, vicino Termoli. La svolta arrivò però nel 1975, quando il 23 dicembre il Cipe approvò il Piano energetico nazionale (Pen), che prevedeva una svolta verso il nucleare. La road map tracciata dal Pen prevedeva una potenza nucleare installata di 7.400 MWe entro il 1982, di 26.400 MWe nel 1985 e di 62.100 MWe entro il 1990. La motivazione era la stessa di oggi: i presunti costi inferiori del kWh atomico.
Il Pen del 1975, di fatto, ratificava uno studio Enel che oltre all’alto Lazio e al Molise identifica come zone adatte all’installazione di una simile potenza (circa 60 reattori per almeno 30 centrali) l’arco alpino lombardo e piemontese, la costa ionica, quella del Tirreno, la Lombardia e il Piemonte orientali, le coste marchigiane-abruzzesi, l’Alto Adriatico, la Venezia Giulia e la Puglia, sia ionica che adriatica. Una localizzazione a pioggia, insomma, che non teneva alcun conto del Rapporto Rasmussen, all’epoca appena uscito, elaborato negli Usa, che richiedeva una fascia di sicurezza di 16 km intorno alle centrali nucleari. Nel 1979 il Comitato nazionale per l’energia nucleare, poi diventato Enea, aggiusta il tiro pubblicando la Carta dei siti (vedi a pag.19) che teneva conto della densità abitativa, condizioni sismiche, idrografiche e scarsità d’acqua per il raffreddamento. Vennero così identificati circa quaranta siti, che coinvolgevano quasi tutte le regioni, comprese però Calabria (sismica al 100%) e Sardegna, che ancora oggi soffre una cronica carenza di collegamento elettrico. Le aree qualificate per il futuro nucleare dovrebbero però essere meno di quelle previste allora: in una recente audizione in commissione Ambiente del Senato, Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, ha “limitato” l’installazione delle nuove centrali, sotto il profilo geologico e sismico, in Sardegna, Piemonte, Lombardia, nord Emilia Romagna e Puglia. Certo, per i filonuclearisti il rischio sismico è irrilevante, visto che l’atomo è utilizzato in maniera massiccia in Giappone. Ma varrà la pena di ricordare che la Tokyo electric power company ha perso 5,6 miliardi di dollari in un anno dopo che il terremoto del 16 luglio 2007 ha danneggiato un reattore del più grande complesso nucleare del mondo, quello di Kashiwazaki-Kariwa, imponendo la chiusura di sette centrali immediatamente dopo l’incidente.
Quo vadis
Nel frattempo c’è chi si fa avanti: la Regione Sicilia, come si legge nel nuovo Piano energetico ambientale regionale, dà la sua disponibilità a realizzare impianti nucleari, nonostante l’isola abbia una delle peggiori reti di trasmissione elettrica. Il Veneto ha messo a disposizione un’area presso la centrale di Polesine Camerini, il cui terreno paludoso non reggerebbe il peso di una centrale nucleare. E Confindustria di Livorno ha presentato lo studio di Marino Mazzini, docente di Sicurezza nucleare all’università di Pisa, che ha riproposto il sito di Pianosa, con buona pace degli operatori turistici. Un’altra ipotesi al vaglio è quella di piazzare le centrali all’estero, superando così i problemi legati alla morfologia del territorio e alla sindrome Nimby. Candidati a ospitare l’atomo italico sono Albania, Montenenegro, Slovenia e forse Tunisia. A dimostrazione di ciò il fatto che Terna, il gestore della rete, ha aperto uffici sia a Tirana che a Tunisi. Si tratta di ipotesi che sono, secondo una fonte riservata, più avanzate di quanto si potrebbe pensare, anche se oggi il ministero smentisce che si tratti di iniziative legate al nucleare.
Le dimensioni contano
Altra questione che influenza la scelta dei siti è quella delle dimensioni dei reattori. L’Italia infatti punta decisa verso la tecnologia francese Epr da 1.600 MWe, direzione ratificata dal recente vertice tra Berlusconi e Sarkozy nel febbraio 2009. Per il Ministero dello sviluppo economico l’accordo tra Francia e Italia, in parallelo al quale, sempre secondo il Mse, è stato firmato un accordo commerciale tra Enel ed Edf per quattro Epr, fissa solo le linee generali circa la cooperazione tra le due nazioni in materia di nucleare e non chiude la porta ad altre tecnologie. Peccato però che nel Decreto Sviluppo scritto a novembre 2008 si afferma che gli impianti omologati nei Paesi con i quali l’Italia ha stipulato, guada caso, un accordo bilaterale in materia di energia atomica, lo sono anche nel nostro. Tradotto: autostrada per l’Epr francese, mulattiera in salita per Ep 1000 statunitense, reattore più sicuro, più collaudato, più piccolo, sul quale Ansaldo nucleare possiede un know how consolidato e che sarebbe più adatto a una situazione come quella italiana. «Ci sono aspetti tecnici che possono determinare un limite alla potenza istallata sul sito, legati alla possibilità di asportare efficacemente il calore, di convogliare l’energia elettrica prodotta su reti adeguate e così via. – afferma Roberto Mezzanotte, direttore del Dipartimento Nucleare, Rischio Tecnologico e Industriale di Ispra - Sul piano della sicurezza e della protezione radiologica, le diverse tecnologie proposte possiedono notevoli margini di adattabilità alle caratteristiche dei siti, mediante l’adozione di opportuni accorgimenti di progetto». Sulla scelta, si afferma in ambienti vicini al Mse, avrebbe pesato molto il consigliere in materia di nucleare del Ministro Scajola, [nominativo rimosso per evitare azioni legali], che ha ottimi rapporti con la Francia e con la lobby nucleare d’oltralpe. Ma sarebbe ingeneroso addossare tutta la responsabilità della decisione francese a questo Governo, la cui scelta è anche frutto della politica del Governo Prodi che scelse i nostri cugini d’oltralpe per il ritrattamento delle scorie, nella vana speranza di convincerli anche ad ospitarle in via definitiva.
Un film già visto
A complicare il risiko atomico italiano potrebbe arrivare anche l’esercito e non per difendere i siti dalle manifestazioni antinucleari, bensì per offrire luoghi idonei alle centrali. Nel Decreto sviluppo all’articolo 22: Valorizzazione ambientale degli immobili militari, infatti, si legge che: «Il Ministero della difesa, (…) allo scopo di soddisfare le proprie esigenze energetiche,nonché per conseguire si unificative misure di contenimento degli oneri connessi e delle spese per la gestione delle aree interessate, può (…) affidare in concessione o in locazione, utilizzare direttamente, in tutto o in parte, i siti militari, le infrastrutture e i beni del demanio militare o a qualunque titolo in uso o in dotazione alle Forze armate (…),con la finalità di installare impianti energetici destinati al miglioramento del quadro di approvvigionamento strategico dell’energia, della sicurezza e dell’affidabilità del sistema, nonché della flessibilità e della diversificazione del l’offerta, nel quadro degli obiettivi comunitari in materia di energia e ambiente». E ancora: «Il Ministero della difesa, di concerto con il Ministero dello sviluppo economico, con il Ministero dell’ambiente e con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la regione interessata, (…) può stipulare accordi con imprese a partecipazione pubblica o private». In pratica il testo consente alla Difesa di stipulare accordi concedendo l’utilizzo di aree militari per i futuri impianti energetici, magari apponendo il “segreto di stato” sugli impianti energetici come prevede uno degli ultimi atti del Governo Prodi: il decreto varato, l’8 aprile 2008, una settimana prima delle elezioni, dal Consiglio dei Ministri sul segreto di Stato che consente di secretare: «gli impianti civili per produzione di energia ed altre infrastrutture critiche». Tutti strumenti questi che consentiranno di realizzare una centrale nucleare, per esempio, nel poligono militare di Capo Teulada in Sardegna, impedendo ai giornalisti di scriverne e all’opinione pubblica di conoscerne i dettagli. Fantascienza? No film già visto lo scorso anno in Campania con l’emergenza rifiuti.
Sergio Ferraris
L'autore ringrazia Giorgio Nebbia per la documentazione e Renzo Riva («nuclearista convinto») per la “Mappa dei siti”.
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L'articolo è stato pubblicato su La Nuova Ecologia