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SERGIO FERRARIS
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COME SEMPRE WORLD PRESS PHOTO

World PressCommentiamo i risultati del World Press Photo 2005. Il premio che una volta l’anno porta alla ribalta dei media la fotografia di reportage, troppo spesso relegata a un ruolo marginale nel mondo dell'informazione
Leggi l'intervista Massimo Mastrolillo, il vincitore italiano
Immancabile, come ogni anno, ecco arrivare anche quest’anno il World Press Photo. Un primo sguardo d’insieme ai premi lascia un poco sconcertati per la frammentarietà delle immagini che questo anno è più alta che nelle scorse edizioni. Si tratta di un problema che il premio olandese ha fin dalle sue origini e che risiede, probabilmente, nel codice genetico stesso dell’iniziativa. È difficile, e forse impossibile, infatti voler rappresentare le complessità e le sfaccettature presenti sul Pianeta, obiettivo secondo noi non dichiarato del premio, mantenendo un’unitarietà comunicativa. Del reso i numeri lo dimostrano. Le immagini presentate per la selezione sono state 83.044 per un totale di 4.448 fotografi provenienti da 122 paesi. Il primo premio di quest’edizione, che è la 49ma, è andato al canadese Finnbarr O’Reilly, dell’agenzia Reuters che ha scattato l’immagine, prima in classifica, in Africa a Tahoua in un centro di nutrizione. È una fotografia simbolica e rappresentativa di un male che affligge l’Africa da decenni: la fame. La mano di un bimbo preme sulla bocca della madre in un gesto muto che sembra chiedere ma rimane inespresso. «È una fotografia che mi ha colpito dal primo momento in cui l’ho vista – afferma James Colton, presidente della giuria – e mi è rimasta impressa anche dopo aver visto tutte le altre immagini ammesse alla competizione. Si tratta di una fotografia che ha tutto: bellezza, orrore e disperazione».

Di sicuro è un’immagine non urlata nella quale il fotografo ha puntato più sulla rappresentazione simbolica del dramma che sulla sua evidenza. Non è una scelta che il World Press ha fatto solo quest’anno. Anche l’immagine di Arko Datta sullo tsunami, vincitrice dell’anno scorso, possedeva caratteristiche analoghe. La morte provocata dal disastro era evocata dalla disperazione della donna e rappresentata, in maniera discreta, dalla mano del suo congiunto morto, tesa in ultima disperata richiesta d’aiuto.
Tre i premi assegnati agli italiani. Doppia pole position per un abbonato del premio: Paolo Pellegrin. Il fotografo della prestigiosa agenzia Magnum si è aggiudicato il primo premio per ritrattistica della sezione storie con un’intensa immagine in bianco e nero scattata, per il settimanale statunitense Newsweek, durante la veglie per i funerali di Giovanni Paolo II e il terzo premio della sezione arte e intrattenimento con un’immagine, sempre in bianco e nero, scattata durante la settimana della moda a New York.
Il fotoreporter Massimo Mastrolillo ha vinto il primo premio della sezione natura con un’immagine in bianco e nero scattata in Indonesia dopo lo tsunami.

L’ambiente e i drammi socioambientali rappresentano ancora una grande percentuale delle immagini premiate, a dimostrazione del fatto che le emergenze del Pianeta non sono affatto diminuite.Sono stati premiati, infatti, anche due fotografi di Greenpeace – Daniel Feltra e Robert Knoth – con immagini sulla siccità in Amazzonia e sui devastanti effetti del disastro nucleare di Chernobyl. La riflessione sui simboli è, effettivamente, il denominatore comune di molte immagini. La stessa tensione la ritroviamo nello sguardo smarrito di un ferito degli attentati di Londra, nel dolore, quasi esoterico, di un congiunto delle vittime dell’eccidio di Sebreniza, nell’impotenza di un uomo in bilico tra la forza degli elementi della natura, acqua, aria e fuoco, scatenati dalla furia devastatrice dell’uragano Katarina e nello sguardo tra padre e figlio, il primo con le braccia amputate durante il conflitto in Sierra Leone, ripreso mentre si fa aiutare dal proprio bambino nel vestirsi. È la costante del World Press Photo, quella di oscillare all’interno degli eventi umani tra gioia e dolore, con un bilancio che troppo spesso pende in direzione di quest’ultimo. Al punto che spesso il premio olandese è stato accusato di essere troppo orientato alla drammatizzazione degli avvenimenti, scegliendo tra quelli più d’impatto dal punto di vista fotografico. Da notare il fatto che  in questa edizione sono stati premiati molti fotografi delle agenzie “storiche” d’informazione come Reuters e Associated Press.

Si tratta di un fatto positivo. Fino a poco tempo fa i fotografi che lavoravano per queste strutture erano considerati, a torto secondo noi, dei fotografi di cronaca internazionale ed erano in buona sostanza ritenuti dei fotoreporter di serie b. La quantità di premi che si aggiudicano da qualche anno rende giustizia a questi professionisti che sono poi quelli che assicurano, spesso con grandi rischi, la fornitura fotografica quotidiana ai giornali che leggiamo tutte le mattine.

Sergio Ferraris (Francesco del Conte)

Il sito del World Press Photo


Un premio “panoramico” senza pixel

Vincere il World Press Photo è già una bella soddisfazione, ma arrivare in cima al podio con una fotografia appartenente a un progetto di ricerca lo è probabilmente ancora di più. Massimo Mastrorillo, fotoreporter professionista,  nato a Torino 44 anni fa e che oggi vive a Roma, vincitore del primo premio della sezione natura, ci parla, a caldo, della sua immagine vincitrice e di ciò che c’è dietro.

Ci descrivi in che contesto è nata la foto che ha vinto?
La mia fotografia vincitrice fa parte di un progetto realizzato per “Fotografia” il festival internazionale di Roma con la sponsorizzazione della Comunità di Sant’Egidio e della Fondazione Su Palatu di Villanova Monteleone. Il progetto fotografico era sull’Indonesia e aveva come tema la situazione di quella nazione all’indomani dello tsunami.

Come era organizzato il progetto?
Eravano tre fotografi e abbiamo documentato la situazione dell’Indonesia tre mesi dopo lo tsunami. Il mio lavoro era diviso in cinque sezioni. La prima sulle baraccopoli a Giacarta, la seconda sull’attività a sostegno degli anziani che svolge la Comunità di Sant’Egidio in quel paese, la terza sul petrolio nella zona di Pekambaru, la quarta sugli effetti dello tsunami a Bandaceh e la quinta sui rifugiati dello tsnunami.

Com’era la situazione in Indonesia?
La situazione della zona era talmente forte che si aveva l’impressione di essere travolti dalla potenza della scene. Il livello di distruzione era tale che ogni volta che scattavo avevo la sensazione del troppo e allora mi sono messo a camminare sulla spiaggia e ho trovato questa scena che mi ha convinto perché ho pensato di poter realizzare uno scatto più evocativo che di documentazione. Una foto che potesse far pensare più che raccontare.

Che cosa ha di particolare per te questa foto?
Una caratteristica di questa foto è che l’ho scattata a pochi metri di distanza da una delle scene più fotografate in assoluto dello tsunami, dove si trovavano due navi, arenate su una strada che la  bloccavano. Il mare, inoltre, nella foto è calmo e mi ha colpito la contrapposizione tra l’effetto del disastro e la situazione di quel momento. Era una mia percezione però, solo mia. La persona che mi faceva da guida, una ragazza, è rimasta a qualche decina di metri di distanza. Aveva paura del mare anche se in quel momento tutto era molto calmo.

Tecnicamente come è stata fatta la foto?
La fotografia è stata realizzata con una Tmax 400 e la Hasselbad Xpan. Per tutto il mio lavoro sull’Indonesia ho utilizzato la Leica, la Hasselblad Xpan e la Holga 6 per 6, come pellicola, in tutti i casi ho usato la Tmax 400. Per ora niente digitale.

Sergio Ferraris

L'articolo è stato pubblicato su FotoCult

 

© Sergio Ferraris
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