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SERGIO FERRARIS
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RANIERO PANZIERI FRA ROMA E TORINO
Operai

Dibattito tenutosi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di siena il 18 maggio 2005

Dal 1974, ogni dieci anni, qualcuno ha preso l’iniziativa di ricordare l’anniversario della morte di Raniero Panzieri.
Vi consiglierei di andare a rileggere il numero della rivista “Aut-Aut” del settembre-dicembre 1975, numero speciale dedicato a ricordare l’ “attualità teorica e politica” di Panzieri dieci anni dopo la sua morte. Il numero si apre con un “falso storico”. Alcuni appunti scheletrici e disordinati sono presentati in apertura con il titolo altisonante “Tesi Panzieri-Tronti”. Seguono saggi di Toni Negri e Massimo Cacciari, di Dario Lanzardo e altri. Il senso dell’iniziativa era quello di una appropriazione di Panzieri come precursore inadeguato della linea operaista di Mario Tronti  e poi di Toni Negri.

I vari “decennali” sono sempre stati riunioni di “reduci” ; in gioco era sostanzialmente una rivendicazione patrimoniale del pensiero e dell’opera di Panzieri.
A quaranta anni dalla morte di Raniero è la prima volta che accetto di scrivere e di parlare di quella esperienza.
Ho accettato perché l’iniziativa veniva da Paolo Ferrero che appartiene ad un’altra generazione. Paolo ha esattamente l’età di mio figlio. Una nuova generazione impegnata politicamente che vuole interrogare quel passato non in termini nostalgici, ma in nome della comprensione del presente.

Non è una operazione facile.
La proiezione del filmato sugli scioperi a Torino del 1962 mi ha molto impressionato.
Il documentario, accompagnato dal lucido e tagliente commento di Franco Fortini, incorpora anche fotogrammi dell’occupazione torinese delle fabbriche nel 1919.
Circa un anno fa ho fatto un rapida ricognizione del panorama urbano e sociale della “nuova” Torino.
Immediatamente il filmato ha suggerito una periodizzazione.
Tra la Torino del “biennio rosso” e la Torino degli scioperi dei primi anni 60 sono passati quaranta anni.
Dagli anni 60 ai nostri giorni sono trascorsi poco più di quaranta anni.
I primi quarant’anni mi sono apparsi come una distanza corta.
I quaranta anni che separano le immagini delle lotte del ‘62  dalla Torino di oggi segnano un distacco enorme, abissale.
Le tute operaie, le agitate assemblee  di Borgo San Paolo, il dire e il fare di quei sindacalisti che si chiamavano Fernex, Garavini, Emilio Pugno in qualche modo appaiono  come prossimi, in continuità con gli operai, le scene di massa, gli edifici torinesi  che ci mostrano le immagini fisse che ricordano il “biennio rosso”   
Nei quaranta anni successivi che portano al 2000 non c’è evoluzione ma rottura, non c’è trasformazione ma crollo.

Nella Torino di oggi  è scomparso il tipo umano che ha dominato la scena del 900, non ritrovi più i ritmi di vita e i riti collettivi che hanno segnato un’epoca centenaria, si è dissolta l’etica comune e la cultura di massa che dalle leghe operaie e dalle sezioni di partito permeavano le discussioni nelle osterie, gli scambi di battute davanti alle fabbriche, le chiacchierate in famiglia.
Lo scenario urbano, la cornice architettonica non è più riconoscibile. Ciò che resta a Torino degli anni 60 sono reperti estremi di archeologia industriale disseminati e in rovina.
Raniero Panzieri aveva iniziato la sua militanza politica organizzando azioni da massa in Sicilia, con l’occupazione delle terre nei primi anni 50. Nel libro curato da Paolo Ferrero, le testimonianze della moglie Pucci e di Nando Giambra ci dicono della durezza e del rigore, della tensione etica e delle solidarietà profonde di quelle lotte elementari e radicali per l’esistenza  nelle aspre e assolate terre di Sicilia insieme con braccianti e zolfatari.
Attraverso le vicende della sua vita politica e intellettuale Raniero ha ritrovato quella  gente del Sud nella grande città meridionale che era diventata la Torino dei primi anni 60, percorrendo dall’interno, con rigorosa e aggiornata contestazione,  il passaggio di questo paese dal proto-capitalismo del secondo dopo-guerra al neocapitalismo fordista di cui la Fiat  rappresentava la punta più avanzata.

Egli fu l’interprete più vigile e radicalmente critico dei mutamenti sociali e culturali negli anni del cosiddetto “glorioso trentennio”.  
Ma il militante e l’analista sociale Raniero Panzieri  si trovò puntualmente e creativamente in un altro crocevia della storia di quegli anni: la crisi e la liquidazione dello stalinismo imposti dalla tragedia ungherese del 1956. Ed anche qui diede un’indicazione di uscita in avanti, di uscita radicale in senso libertario e classista.
Nelle “tesi sul controllo operaio”, a mio avviso, si incrociano sia la critica del dispotismo della fabbrica moderna sia la contestazione di una lunga tradizione di autoritarismo statalista dei partiti operai: in questo crocevia confluisce e viene rilanciata l’ ispirazione libertaria antica del socialismo che egli vuole ricollocare nel presente come prospettiva di emancipazione dei lavoratori che sta nelle mani dei lavoratori stessi.

Il veicolo della sua elaborazione teorica e del suo messaggio politico fu la direzione della rivista del PSI, Mondo operaio, nel biennio 1957-58.
La risposta elaborata da Panzieri ai fatti d’Ungheria fu determinante nella mia scelta di impegno politico diretto e a tempo pieno che mi coinvolse per più di vent’anni.
Nell’inverno 1956-57 ero a Roma. Ancora lontano dall’impegno politico fui casualmente coinvolto nel travagliato dibattito di intellettuali comunisti come Sapegno, Muscetta, Crisafulli, Giolitti e Velso Mucci. Nell’alternativa che si poneva tra conformismo conservatore di partito e abbandono dell’impegno politico vidi il crudo riflesso di un partito comunista completamente paralizzato in un mondo in pieno movimento.

Gli impulsi che venivano dal Mondo operaio diPanzieri aprivano invece orizzonti alla curiosità intellettuale e al bisogno di azione di un giovane che aveva poco più di venti anni. Mi iscrissi al “partito di Panzieri”, ritornai in Piemonte a fare lavoro politico e ricerca sociale.
A partire dal 1959 sino al 1964 il rapporto con Raniero fu più ravvicinato e operativo: il nostro lavoro di fabbrica tra gli operai biellesi interagiva con il suo impegno torinese nell’esperienza dei Quaderni rossi. L’inchiesta sulla condizione operaia e l’analisi critica del macchinismo industriale diventavano strumenti operativi di costruzione, nelle lotte, della linea politica del controllo operaio.

Il decennio 1959-1969, avviato con l’esperienza dei giornali di fabbrica nel biellese e culminato con i movimenti anti-autoritari e i consigli di fabbrica nel clima rovente della Torino del 68-69, personalmente l’ho vissuto come una straordinaria sintonia tra analisi sociale e iniziativa politica, tra conoscenza e azione che aveva alle spalle la lezione di Raniero, lezione che sentivi viva e   operante anche dopo che lui ci lasciò in quell’autunno del 1964.
Con gli anni 70 incomincia un’altra storia segnata da una micidiale dissociazione tra la nostra capacità di indagine e il cammino della realtà.

La cifra dell’ accecamento la vedo espressa nello slogan che ha dominato il biennio 68-69: questo non è che l’inizio. Oggi credo che possiamo dire di aver semplicemente scambiato l’inizio con la fine, di aver interpretato le manifestazioni che chiudevano un ciclo storico come  fossero il preludio di una esaltante continuità del protagonismo di soggetti sociali e di culture politiche avviati invece al  declino. Di qui discende l’esigenza di una spietata auto-critica da parte di una  “nuova” sinistra che per anni e anni ha entusiasticamente “scoperto” il vecchio ed ha riciclato appassionatamente relitti della storia per costruire le architetture del futuro.
Chi avrebbe mai pensato che in quegli anni ’70 iniziava quel mutamento genetico, quella rivoluzione antropologica che avrebbero prodotto il volto irriconoscibile e imprevedibile di  questa Torino del 2000 di cui ho parlato all’inizio? Io no.    

Il rapporto tra culture politiche,  realtà istituzionali  e dinamiche socio-economiche in questo nostro paese è sempre stato piuttosto eccentrico.
Consideriamo il ventennio 1932-1952: in questo periodo di tempo abbiamo visto realizzarsi le più radicali discontinuità politiche-istituzionali ( caduta del fascismo e della monarchia, repubblica parlamentare dei partiti) e la sostanziale continuità sociale ( dopo la guerra contadini, operai e impiegati si sono ritrovati nelle posizioni in cui erano prima della guerra).
Nel ventennio 1952-1972 abbiamo avuto l’assoluta continuità del sistema politico ( il regime dei partiti dominato dalla democrazia cristiana)mentre si realizzava il più travolgente mutamento della struttura sociale ( quasi nessun italiano nel 1972 si trovava nelle stesse condizioni in cui viveva venti anni prima).
Il ventennio 1972-1992  vede radicali discontinuità politiche e culturali ( crollo del partiti burocratici  di massa, scomparsa delle tradizioni del socialismo, del comunismo e del cattolicesimo politico, fine del sistema sovietico e della guerra fredda…) che convergono con  drastiche e profonde rotture economiche e sociali ( crisi del fordismo, società informazionale, globalizzazione..).

Panzieri ci ha dato strumenti di analisi efficaci e stimoli politici che hanno alimentato pensiero critico e azione sociale nel ventennio 1952-1972; che cosa può dirci e darci oggi dopo i cataclismi di fine secolo?
Raniero  affrontò con attenzione critica e iniziativa politica una grande transizione della società italiana e seppe insegnarci ad avere mente lucida e nervi saldi dentro i  terremoti della storia; insegnò a rimanere se stessi cambiando le proprie idee per restare in presa diretta con la realtà che muta: rompere, per continuare. E questo è un buon principio da ricordare in tempi di grandi liquidazioni a prezzi stracciati o di sottili tentazioni nostalgiche.
Inoltre credo che altre  sue lezioni di metodo siano ancora valide oggi.
In primo luogo l’indicazione dell’inchiesta, dell’indagine sociale contro l’auto-referenzialità della politica e contro le fughe consolatorie nell’ideologia.      
   
In secondo luogo credo che sia più che mai necessario riprendere, estendere la sua”critica dell’uso capitalistico delle macchine” contestando alla radice la cosiddetta “neutralità” della scienza e della tecnica. Oggi viviamo schiacciati sotto una dittatura tecnologica nel lavoro e nella vita. Oggi  l’impazzimento dei mezzi divenuti fini a se stessi ci espropria della capacità di ridare priorità a orizzonti normativi, a finalità umane e sociali discusse e condivise.
Quindi ciò che oggi ci viene da lui è soprattutto (non unicamente) una  lezione di metodo ,  di rigore  intellettuale, coerenza morale. Il merito, il contenuto specifico delle analisi e dei dibattiti di quarantant’anni fa, in gran parte sono andati perduti con i travolgenti mutamenti della realtà: la centralità della grande fabbrica fordista e dell’ “operaio collettivo”, il “piano” del capitale, la riformabilità del “socialismo reale”, il tentativo di forzare in senso “democratico” o addirittura “libertario” una tradizione marxista geneticamente autoritaria.

Su un punto importante credo che la ricerca di Panzieri contenga suggestioni ancora attuali riguardo al merito sono  le sue analisi della crisi del sistema politico e le sue intuizioni circa  la direzione che avrebbe dovuto prendere un processo di radicale innovazione della politica.
Quando dentro la crisi dello stalinismo e attraverso le “tesi sul controllo operaio” egli metteva in discussione il “Partito guida”, quando contestava la  divisione del lavoro istituzionalizzata tra partito parlamentare e sindacato economico, quando apriva gli spazi di una “terza dimensione” in cui si intrecciavano società civile e politica attraverso nuovi istituti di autogoverno, il suo sguardo allora andava  ben oltre la crisi dello stalinismo.

Intuiva ciò che Paolo Farneti nei primi anni 70 colse in modo lucido ed esplicito come nesso dirompente tra l’ emergere di “un nuovo modo di fare politica” e  crisi dei partiti burocratici di massa. Con la comparsa dei “movimenti collettivi” e la crisi irreversibile degli assetti del sistema politico che hanno retto le forme di coesione e di rappresentanza per oltre un secolo, concludeva Farneti, “ l’immaginazione politologia e sociologica degli anni a venire dovrà impegnarsi anche ad ideare una struttura alternativa a quella società politica che fin dagli inizi del secolo… sembrava ereditare le grandi ideologie dell’800  capace di portarle a compimento”.
 Abbiamo invece assistito ad  un susseguirsi  di rozze reazioni di  resistenza del ceto politico e a manovre di aggiustamento trasformistico all’interno di una vicenda interminabile di degrado e di logoramento del sistema politico.  Non si è visto un barlume di immaginazione politologica, non è apparso il germe di una struttura alternativa ad una  politica sempre più oligarchica e auto-referenziale.

Da decenni invece rimane aperta la “terza dimensione della politica”, quella  dei movimenti politici di massa. I nuovi movimenti sociali hanno  alti e bassi, cambiano volto e differenziano le loro culture e i loro obbiettivi ma restano comunque al centro della scena sociale.
La nascita del “movimento dei movimenti” rende più maturo e solido  lo sviluppo di un nuovo paradigma dell’azione politico-sociale, di una nuova configurazione della vita associativa.
Sono almeno tre le importanti novità, non contingenti, che si sono sviluppate a partire da Seattle.

Da una parte vediamo la persistenza e la convergenza di un movimento “arcobaleno”  vaccinato rispetto al riduzionismo ideologico faziosamente autodistruttivo.
In secondo luogo il “movimento dei movimenti” è tale non solo in quanto consapevolmente pluralistico ma anche in quanto si manifesta come una stratificata “associazione di associazioni”.
L’originalità di questa esperienza consiste nella sua capacità di combinare momenti di mobilitazione  “spettacolare”, che generano opinione democratica sui grandi temi scottanti del nostro tempo, con la persistenza di  una rete di  molecolari e diffusi raggruppamenti di impegno sociale quotidiano.
Questa doppio livello  impedisce le oscillazioni tra i picchi alti dei “gruppi in fusione” e la caduta devastante nella “serializzazione” (per usare il linguaggio di Sartre del 1968).
Infine le nuove tecnologie di comunicazione interattiva, internet in primo luogo, rendono possibile ai media-attivisti del nuovo secolo di praticare quelle inedite forme di associazionismo segmentario, policefalo e reticolare che fu l’utopia organizzativa della contestazione americana degli anni ’60.

Questa sottile , decentrata configurazione orizzontale delle reti del cambiamento sociale, difficile da percepire da parte di coloro che erano abituati a vedere i battaglioni in marcia delle masse compattamente inquadrate, rende possibile ai nuovi movimenti  di operare una straordinaria “mossa del cavallo”.
Il 68  era un movimento sociale molto articolato nella società ( scuola e fabbrica, quartieri e manicomi,  carceri e istituzioni ecclesiali….) ma l’ossessione politicista produceva una progressiva astrazione dalla vita in nome del generico-generale scontro di potenza con lo Stato.
 Per vincere Gulliver occorreva diventare anti-Gulliver. La logica insieme alternativa ed  efficace della rete  lillipuziana che può accerchiare e imprigionare il gigante non era allora pensabile,   i vecchi movimenti non la conoscevano.

Raniero non poteva certo immaginare questi sviluppi, però egli, con acutissima  intuizione, pose all’ordine del giorno il tema della  crisi delle forme date della politica e  sollecitò un impegno di invenzione ereticale della politica. come partecipazione e auto-governo. Si rifiutò di fare frettolosamente il “nuovo” partito rivoluzionario con i vecchi metodi e secondo logiche storicamente condannate.
Di questo fu rimproverato a sinistra. In questo io vedo invece il segno della sua lungimiranza.

Pino Ferraris

Pubblicato sulla rivista L’ospite ingrato, anno nono I /2006

 

© Sergio Ferraris
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