Rischio chimico. Due parole dal suono sinistro che evocano luoghi lontani nel tempo come Seveso e Bophal. Ma anche spettri che ancora si agitano nel quotidiano di molti italiani, come quelli che vivono nei pressi del megaimpianto di Porto Marghera o sulla costa tra Augusta e Siracusa, dove si concentrano oltre una mezza dozzina di industrie a rischio. Qui, il 30 aprile 2006, un incendio è divampato nella raffineria Erg Nord. «Il calore ha preso subito tutto l’impianto – racconta un dipendente dell’impianto che chiede di restare anonimo – e dopo circa mezz’ora tutto il personale si è rifugiato in una sala bunker di cemento armato e con l’aria pressurizzata». Fin qui, tutto come previsto dal protocollo d’emergenza, ma non tutto è andato per il verso giusto. Tanto che a distanza di settimane ancora non si placano le polemiche sul funzionamento delle procedure allerta. «Tanto per cominciare la manutenzione degli impianti potrebbe essere migliore – continua il dipendente della raffineria – Poi avrebbe dovuto suonare qualche sirena d’allarme in più e bisognava valutare meglio i segnali di preavviso dell’incendio». Tant’è vero che due giorni dopo, a distanza di parecchie ore, in un punto dello stabilimento vicino alla superstrada 114 e alla ferrovia c’è stato un secondo incendio delle strutture ormai incandescenti. Episodi che riaprono le perplessità sulla gestione dell’emergenza e dei primi interventi per tutelare la salute e la sicurezza dei cittadini.
Più sicuri dopo Seveso
Nell’ottobre 2005 gli stabilimenti «suscettibili di causare incidenti rilevanti» erano ben 1.120. Ognuno dovrebbe avere il suo piano d’emergenza esterna per mettere al sicuro in caso d’incidente le persone che vivono a ridosso degli impianti a rischio. Ma a trent’anni dalla lezione di Seveso come vengono gestiti i piani d’emergenza? Per dare un giudizio bisogna prima di tutto scindere le procedure che scattano all’interno degli stabilimenti da quelle che si rendono necessarie all’esterno. Le prime intervengono su un’area circoscritta al perimetro delle industrie, dove le variabile sono di solito chiare e ben definite. Le cose si complicano quando i fumi o peggio le sostanze tossiche disperse nell’aria oltrepassano i confini delle fabbriche e raggiungono zone abitate. Dopo Seveso, l’Italia e l’Europa si sono dotate di strumenti legislativi in grado di fronteggiare l’emergenza chimica e limitare i danni alle persone. Dieci anni fa il nostro paese è stato richiamato all’ordine dall’Unione Europea per una pianificazione molto carente, ma oggi la materia è regolata da due decreti legislativi, il 334 del 1999 e il 238 del 2005, che fissano regole e procedure precise. Tanto che su un totale di 462 piani, 310 sono completi e 108 in corso di predisposizione o aggiornamento. Dei 44 ancora non predisposti, invece, sono 34 quelli effettivamente inesistenti.
Una scheda salvavita
La predisposizione dei piani d’emergenza è a carico di aziende, prefetture e comuni. Le aziende devono rendere noti il tipo do lavorazione e le sostanze a rischio presenti all’interno degli impianti, le prefetture devono elaborare i piani e ai comuni è demandata l’informazione preventiva alla popolazione. I sindaci devono informare con i mezzi che ritengono più opportuni i cittadini sui comportamenti da tenere in caso d’incidente. Il D.Lgs. 334/99, però, fissa per ciò che attiene l’informazione preventiva un punto cardine: la distribuzione di un’apposita scheda informativa. «Si tratta di uno strumento importante – afferma Loretta Floridi, responsabile rischio industriale del Dipartimento della Protezione Civile Nazionale – perché obbliga il Comune a diffondere e a rendere note alla cittadinanza le informazioni messe a disposizione dal gestore dell’impianto. La scheda è divisa in nove sezioni delle quali sette devono essere pubblicate, mentre due rimangono a disposizione dei cittadini che ne possono fare richiesta al Comune». Queste ultime due parti, le più tecniche, riguardano le informazioni tossicologiche ed ecotossicologiche delle sostanze, la categoria dell’evento iniziale (un incendio, un’esplosione o un rilascio), con le zone di danno che sono a loro volta divise in tre fasce concentriche attorno al luogo dell’incidente: quella di sicuro impatto, quella di danno e quella di attenzione. L’impressione che si ha è quella che l’informazione politicamente più “scomoda”, quella per intenderci relativa alle informazioni sulla tossicità delle sostanze e delle zone di danno, anche se comunque pubblica sia un po’ nascosta a causa dell’impatto negativo che queste nozioni potrebbero avere sulla popolazione.
Manifesti nascosti
A Taranto, dove è altissima la concentrazione d’impianti industriali con la presenza di un siderurgico, di una raffineria e del porto militare attrezzato per accogliere anche i sommergibili nucleari della Nato, la comunicazione in caso di emergenza è affidata agli altoparlanti delle vetture della Polizia municipale e a tutte le emittenti televisive e radiofoniche locali, che sono obbligate a sospendere le trasmissioni per diffondere notizie sull’emergenza in corso. Ma la comunicazione preventiva ai cittadini sembra mancare. L’anno scorso la protezione civile aveva preparato i manifesti da affiggere sui muri della città con le misure da adottare in caso di incidente. Le aziende però hanno posto il veto all’affissione per i toni allarmistici usati nella comunicazione. Così il comune ha deciso di rinunciare. «Il nostro territorio – spiega Raffaele Russo, il funzionario responsabile della protezione civile del comune – è comunque ben sorvegliato e protetto, anche perché la marina militare e l’aeronautica in caso di necessità sono in grado di mettere a disposizione mezzi che mancano in altre città. Sul fronte della comunicazione investiamo molto sui ragazzi con lezioni ed esercitazioni in tutte le scuole». Sull’educazione e l’informazione si investe anche molto a Priolo, grazie al progetto Scuola che prevede lezioni teoriche in tutte le classi del distretto scolastico. Nel comune siciliano, però, funziona meglio la comunicazione preventiva: i manifesti con le misure d’emergenza sono affissi in tutta la città ogni sei mesi, e quella dello stato d’allerta in caso d’incidente. «Il comune è dotato di un sistema audiofonico con quattro altoparlanti controllati dalla centrale operativa della protezione civile – spiega il dirigente dell’ufficio di protezione civile comunale Giovanni Attard – Può essere attivato su un quartiere interessato o su tutti i quartieri contemporaneamente: di solito si valuta la direzione dei venti che possono diffondere gli agenti tossici. L'allerta scatta con tre beep e poi viene diffuso il messaggio del sindaco, che indica ai cittadini i luoghi in cui rifugiarsi o le strade sicure da percorrere». Ma non tutti sono d’accordo.
«Le amministrazioni tendono a perdere la memoria sulla questione dei piani di sicurezza esterni. – afferma Enzo Parisi, vicepresidente di Legambiente Sicilia, Anche quando si effettuano le esercitazioni, queste non coinvolgono i cittadini e così ci si trova in situazioni problematiche quando accade un incidente. La riprova di ciò c’è la nostra esperienza diretta. Dopo l’evento la gente scappa senza coordinamento e spesso le informazioni dall’interno delle aziende tardano ad arrivare». Priolo è un paese però privilegiato. Immediatamente dopo l’ultimo incidente, infatti, i cittadini del paese siciliano sono stati avvertiti attraverso i megafoni, ma la stessa cosa, secondo alcune testimonianze, non è accaduta per gli abitanti di Melilli, Augusta e della zona nord di Siracusa.
Quell’albo insufficiente
I cittadini che vivono a ridosso di un impianto conoscono bene la procedura, anche perché spesso ci lavorano. Non a caso, infatti, l’allarme seguito all’incidente del 30 aprile è stato lanciato contemporaneamente sia dalle istituzioni, sia da telefonate partite dallo stabilimento della raffineria Erg nord. Le linee guida per i piani d’emergenza identificano, quindi, tre requisiti: quello dell’allarme, l’informazione preventiva e l’identificazione sulla cartografia degli elementi più vulnerabili e sensibili, come ospedali, scuole e asili. In pratica all’avviso dell’incidente in corso dovrebbero seguire il comportamento informato della popolazione e l’azione dei vigili del fuoco verso gli elementi sensibili. Ma i piani vanno verificati sul campo. A Ferrara, città virtuosa ma con una situazione problematica, c’è voluta un’esercitazione per rendersi conto che le sirene interne agli stabilimenti erano insufficienti e la popolazione non le sentiva nonostante gli stabilimenti siano molto vicini ai centri abitati. L’esperienza è servita per adeguare il sistema d’allarme con cinque potenti altoparlanti, posti molto in alto che ora diffondo un allarme efficace.
Nonostante il meccanismo sembra rodato, insomma, la situazione non è esattamente quella ideale. Soprattutto per l’atteggiamento di alcuni sindaci, che hanno un’idea molto singolare di come debba essere la comunicazione verso i cittadini e spesso si limitano ad affiggere la scheda di informazione, con tutti i suoi nove punti, all’interno dell’albo pretorio, dove rimane a disposizione dei cittadini. Saranno questi poi ad avere la responsabilità di informarsi.
L’emergenza va al mercato
Il D.Lgs 238/05 però tenta di invertire la rotta imponendo alle istituzioni di rendere più accessibili le informazioni. «Noi cerchiamo una comunicazione più partecipata – dice Loreno Furano, responsabile del servizio di protezione civile e rischio industriale del comune di Venezia – Ad esempio quando a Marghera si fa il mercato, due volte alla settimana, dei volontari fermano le persone e spiegano tutto ciò che c’è sui volantini e manifesti, perché i volantini consegnati senza spiegazioni vengono buttati nel cestino dell’immondizia, come quelli messi nella buca della posta». E a Marghera, la campagna d’informazione permanente, come la chiama Furano, accompagna le persone fin dentro casa: in ogni condominio della città c’è una scheda autoadesiva con la descrizione di tutte le misure d’emergenza. Anche qui, poi, funziona un sistema di undici altoparlanti per lanciare l’allerta e l’interruzione delle trasmissioni radiofoniche e televisive è gestita dalla Prefettura.
Meglio eccedere
L’esperienza dunque mostra come senza efficaci azioni preventive la macchina dell’emergenza non può funzionare correttamente. Nel caso dell’incendio del deposito di vernici della società Imper Italia di Torino dell’ undici giugno 2003 la nube tossica investì in pieno alcune abitazioni che furono prontamente evacuate. Il problema, in questo caso fu quello di avvertire le persone che tornando dal lavoro non trovavano più le famiglie, trasferite in un centro di raccolta dall’altra parte della città. La questione fu risolta mettendo davanti alle abitazioni vuote dei volontari della protezione civile dotati di maschere protettive che spiegavano la situazione a chi rincasava. Tre anni fa a Venezia il sindaco di fronte a un incidente a Porto Marghera che si presentava molto serio scelse spontaneamente di fare un rifugio al chiuso per centinaia di persone. Il giorno seguente, verificato che l’incidente non aveva assunto le proporzioni previste ci furono polemiche sulla reazione «esagerata» delle autorità comunali. Probabilmente l’eccesso di precauzione in questo come in altri casi è meglio di una sottovalutazione del rischio, soprattutto quando, come spesso capita nell’attuazione dei piani d’emergenza, manca un efficace coordinamento fra i soggetti responsabili dell’attuazione. «Nei capoluoghi – continua Loretta Floridi, della Protezione Civile – è più semplice coordinare i vari soggetti anche per questioni di vicinanza geografica dei soggetti coinvolti. Quando la prefettura è distante dal municipio tutto diventa più complicato». Il problema di coordinamento, poi, si aggrava nel caso ci si trovi di fronte a un gestore dell’impianto che tenda a minimizzare il rischio. E l’emergenza torna a trasformarsi in tragedia.
Sergio Ferraris
L'articolo è stato pubblicato sulla rivista La Nuova Ecologia |